Cinque schede su Robert Walser

Robert Walser. La grazia e l’abisso/ 1 - Nel corso di un convegno svoltosi a Genova il 24 aprile 2015, quattro critici e scrittori contemporanei si sono interrogati sull’enigma degli ultimi anni di vita di un classico sommerso della letteratura del primo novecento, Robert Walser (Bien, 1878-Herisau, 1956), dal 1933 fino alla morte, mentre era ospite volontario del manicomio di Herisau. Autore di alcuni capolavori della letteratura tedesca, da La passeggiata a Jakob von Gunthen, da I Fratelli Tanner a Il Brigante, Walser (al quale Zibaldoni ha dedicato uno ZiBook scaricabile gratis qui sul nostro sito) ci appare oggi come uno scrittore estremo e appartato, che ha tentato di sottrarsi alle leggi dell’io e del mondo, scegliendo il mite silenzio della follia invece del vano rumore della ragione. Con l’intervento di Luigi Sasso diamo inizio alla pubblicazione degli Atti del convegno genovese. Seguiranno gli interventi di Antonio Devicienti, Giuseppe Zuccarino e Marco Ercolani - e, in conclusione, una traduzione inedita in italiano di un pezzo di Robert Walser.

di in: Con Robert Walser

Robert Walser disegnato da Davide Racca

Un orecchio indicibilmente commosso

 

In una pagina di Storie – un libro che Walser pubblica alla vigilia della Grande Guerra – si legge questa frase: «Io sono ormai solo un orecchio, un orecchio indicibilmente commosso» [1]. Walser è un autore estremamente sensibile all’espressione musicale, con la quale stabilisce un rapporto che presenta diversi aspetti. Va innanzitutto sottolineata la capacità di ascolto, a cominciare dai suoni che provengono dalla natura. Quest’ultima sembra a volte sul punto di rivelare l’armonia che nella sua profondità si annida e da cui tutto nasce. Accade durante la passeggiata che dà il titolo al suo racconto più celebre: «Gli abeti si ergevano come colonne, neppure una foglia si muoveva nella grande, serena foresta: sembrava solo echeggiarvi e risonarvi un concerto di voci inudibili, aggirarvisi una schiera di evanescenti figure. Suoni di un mondo primordiale giungevano, provenienti chissà da dove, al mio orecchio» [2].

Ma a sua volta la musica consente di percepire in maniera più inquieta e profonda l’ambiente circostante: il  suono ha infatti il potere di dilatare il paesaggio, di presentarlo come infinito. Lo si avverte in una pagina del romanzo I fratelli Tanner, in cui a un certo punto ascoltiamo un  suono che si muove, lento e incessante come un respiro. Walser sta descrivendo una notte stupenda, la gente che cammina lungo la bella riva del lago, l’atmosfera sospesa come quella di una fiaba. È il tramonto, l’acqua scintilla nell’oscurità. Camminando sul ponte si vedono scivolare le piccole barche scure. A un tratto, da un’imbarcazione più grande che si muove lenta e solenne, ecco alzarsi le vibrazioni, intonate alla notte, di un’arpa irlandese: «Il suono si perdeva nel buio e ne riemergeva forte, acuto e caldo, basso e straziante. Come giungeva lontano il suono di quel semplice strumento, suonato da qualche barcaiolo! La notte sembrava diventarne ancora più grande e profonda» [3].

La musica può giungere all’orecchio in maniera del tutto accidentale, inattesa. Basta il canto di una fanciulla per risvegliare sensazioni dolcissime. Ma cercando di carpirne la natura, quelle note rivelano una dimensione ambigua, si mostrano capaci cioè di farci presagire cosa possa essere la felicità, ma nello stesso tempo di portarci sulla soglia della morte. Alla musica non sono concessi stadi intermedi: «Colpito piacevolmente dal canto inatteso, mi fermai un po’ in disparte, sia per non disturbare la cantante, sia per non perdere il mio privilegio di ascoltatore e il relativo godimento. La canzone che cantava quella fanciulla mi sembrava straordinariamente felice e allegra. Le note fluivano giovani e innocenti al pari della felicità stessa: felicità della vita, felicità dell’amore. Come figure d’angeli dal niveo, gioioso piumaggio, volavano verso il cielo turchino e parevano ricaderne per morire in letizia. Era come la morte per struggimento, o forse per esuberanza di gioia, come un vivere e amare in esultanza, un non poter più vivere a causa di un’immagine troppo bella, ricca, dolce della vita: talché quell’idea soavissima, traboccante di affetto e di giubilo, sembrava, irrompendo prepotente nell’esistenza, precipitare e infrangersi su se stessa» [4].

E’ chiaro allora che la musica costituisce una presenza forte e importante nell’opera di Walser, e che da semplici, quasi estemporanee annotazioni si debba passare a osservazioni più meditate, a interrogativi destinati a suscitare necessari approfondimenti.

La risposta in grado di avvicinarsi al segreto della musica può essere individuata tra I temi di Fritz Kocher, il libro dell’esordio letterario di Walser. Si tratta di una sorta di elogio della musica («La musica per me è la cosa più dolce del mondo» [5], afferma  l’autore), dal quale tuttavia possono essere recuperate alcune inquietanti indicazioni. Appare qui già chiaro, per esempio, il rapporto con la morte, presentato come una forma di presagio, quasi come un desiderio: «Spesso, quando d’estate cammino nelle strade infuocate, e da una casa sconosciuta viene il suono di un pianoforte, resto immobile e mi sembra di dover morire lì sul posto. Mi piacerebbe morire ascoltando un pezzo di musica» [6].

Ma forse il segnale più prezioso deve ancora essere rintracciato. Esso suggerisce che la musica ci lascia sempre con una sensazione di incompiutezza, come una frase che s’interrompe, un dipinto non finito. Come ogni tentativo di scrittura, oltre il quale si profila un’altra pagina, e un’altra ancora: «Davanti alla musica ho sempre un’unica sensazione: mi manca qualcosa» [7]. È un’affermazione talmente importante che a Walser sembra opportuno, a distanza di poche righe, chiarirla e ribadirla, e a noi toccherà il compito, più avanti, di richiamarla: «Mi manca qualcosa quando non sento musica, e quando la sento, allora sì che mi manca veramente qualcosa» [8].

Insomma la musica apre nell’anima uno spazio vuoto. Negli ultimi anni della vita di Walser, quelli consegnati al silenzio di Herisau e alle preziose annotazioni di Carl Seelig, questa dimensione lacerata, sofferta, si manifesta in modo evidente. Walser confessa a Seelig di non provare alcun desiderio di ascoltare musica, la cui presenza nella realtà contemporanea – siamo nel 1941 – gli appare ormai invadente e fastidiosa («Oggi ce la propinano persino nei pisciatoi» [9]). Salvo poi,un attimo dopo, lasciar affiorare una diversa dimensione, lo spazio del ricordo: «Ma quando a Berna ero innamorato di due chellerine, ne ero letteralmente assetato, la rincorrevo come un ossesso» [10].

Forse questo rapporto conflittuale e tormentato con la musica non tradisce soltanto una condizione psicologica di Walser, forse questo sbilanciamento è presente nella sua scrittura. La musica, però, non è solo un tema o una qualità della forma: è un decisivo luogo di passaggio. Un elemento chiave per entrare nell’opera di Robert Walser.

 

Un alter ego

 

Che rapporto intercorre tra il narratore e il personaggio? Sono l’uno il sosia dell’altro? Vivono realtà completamente diverse, si muovono in differenti direzioni oppure sono una persona sola? E questo rapporto coinvolge anche l’autore? Può accadere che il personaggio si senta parte di un racconto parallelo, di una storia diversa da quella che sta vivendo. È come se volesse eludere la sorveglianza di chi narra, sbucare fuori dalla pagina per andare a girovagare per conto suo, da qualche altra parte, in qualche altra storia.

Una sensazione simile si prova leggendo la lettera che il protagonista di Vita di poeta scrive alla padrona di casa: «Cara signora Bandi, quassù nella mia stanza mi sento come nel bel mezzo di un racconto in cui fosse detto o scritto o stampato che un giorno un bel giovane, forse non dotato di grande ingegno, se ne sedeva nella sua brava mansarda intento a sognare. A volte mi par d’essere una figura di sogno, un personaggio chimerico. Non vivo, eppure esisto, come può essere[11].

Ma è soprattutto nell’ultima fase dell’attività di Walser che i rapporti tra le figure sopra ricordate tendono a complicarsi, a essere frequentemente ridefiniti, sottoposti a scosse, a ripensamenti. È esemplare in tal senso il caso del romanzo Il Brigante, testo composto nell’estate del 1925, ritrovato tra i cinquecento e passa fogli scritti a matita con grafia minutissima (i cosiddetti microgrammi) e pubblicato postumo nel 1972. Già nelle prime pagine è possibile leggere una frase come questa: «Voglio solo rapidamente aggiungere: qui c’è un alter ego che non mi ubbidisce»[12]. Una frase che sembra mettere a fuoco gli interrogativi da cui siamo partiti,  ipotizzare che il personaggio possa vivere di vita autonoma, sfuggire al controllo di chi intesse la storia. Come se aumentasse la distanza tra il protagonista e colui che ne racconta le imprese: «e adesso il mio eroe romanzesco, o colui che deve ancora diventare tale, si tira la coperta sin sopra la bocca e pensa chissà che»[13].

Quello che invece narratore e personaggio condividono sono la sbadataggine[14], l’irresolutezza[15], l’inadeguatezza. E da tale premessa derivano momenti in cui l’uno è davvero la controfigura dell’altro: «I cigni nella fontana del castello, la facciata rinascimentale. Dove ho visto tutto ciò? O, meglio, dove l’ha visto il Brigante?»[16].

Può anche accadere che il personaggio esca quasi dalla sua storia, questa volta però non per immaginarsi parte di un’altra vicenda narrativa, ma per mettersi a fianco di colui che narra, per prendere parte al lavoro dell’autore: «Oggi il Brigante è molto pallido dal grande scrivere, perché potete ben immaginare con quale solerzia mi aiuti nella stesura di questo libro»[17].

Da queste deviazioni, tra queste mutevoli presenze si fa strada a poco a poco una domanda: che sia questa la grazia? Questo procedere indolente, non solo dell’autore, ma della scrittura stessa, questo ritrarsi, fino alla soglia della sparizione[18], per lasciare la pagina disseminata di segnali del proprio movimento, del proprio passaggio? Questo dare l’impressione che tutto sia sul punto di cadere, di precipitare rovinosamente, e infrangersi, salvo poi miracolosamente acciuffarlo, restituirlo a una fisionomia alla fine riconoscibile, a una sequenza di nodi, a un tessuto? Accade persino con la scrittura più disordinata e per certi versi imprevedibile per eccellenza, cioè con il diario, scrittura esposta al gioco dell’imperscrutabilità degli eventi, ma disposta altresì a lasciarsi plasmare secondo un chiaro disegno dell’autore: «Posso in ogni caso rimarcare il fatto che ho nuovamente o ancora una volta stretto e annodato ciò che aveva già dato l’impressione di disfarsi. Mi pare di essere riuscito, in un certo qual modo, a riprendere in mano il filo che mi era temporaneamente sfuggito»[19]. Sono parole che intendono convincerci che i personaggi, il narratore, l’autore, forse la stessa trama della narrazione sono tutte realtà composte da frammenti, pezzi alla ricerca di un equilibrio precario, smarrito ma in fondo – non si sa come né per quanto tempo – ritrovato.

 

Spostamenti nel tempo

 

Restiamo al Diario del 1926. Un anno significativo nella vita di Walser. Lo scrittore si trova a Berna, dove ha iniziato a imbastire narrazioni, a prendere appunti, ad annotare riflessioni ed esperienze sopra fogli volanti, di seconda mano: per esempio quelli di un calendario. È già iniziata la stagione dei microgrammi. Da questa selva di segni grafici si stacca un frammento di testo, come lui stesso lo definisce, una delle ultime prove prima del silenzio definitivo. Non ci sorprende, allora, una frase come la seguente, che ci ragguaglia sull’intermittente affiorare della materia narrativa: «La notte scorsa mi è passato per la testa quanto segue»[20].

Tutti conoscono Walser come camminatore, aspetto evidenziato anche da un breve saggio di W. G. Sebald[21]e che non di rado condivide con i suoi personaggi. È sufficiente rivolgersi a una breve prosa intitolata Lo studente, dove leggiamo: «Il camminare era per lui qualcosa come un godimento musicale, che si fondeva col pensiero, con la meditazione e con la poesia», da cui si deduce che camminare significa sì muoversi nello spazio, ma anche spostarsi nel tempo.

Proviamo allora a sondare quale rapporto Walser stabilisca col tempo. Un rapporto emblematicamente sintetizzato da quel gesto che abbiamo da poco ricordato, cioè il prendere appunti sui fogli di un calendario. Ci sono indicazioni che evocano un tempo lontano, vago come lo scenario di una fiaba (C’era un volta; un bel giorno, mi ricordo…);in altri racconti, invece, l’immagine, l’intera storia si situano in una posizione temporale più prossima, tale che sembra proiettarsi nel presente (Di recente; ultimamente ecc.). O ancora, nel Brigante, assistiamo a un movimento molto simile a quello da cui siamo partiti: «e ora all’improvviso gli tornò in mente una cosa buffa»[22], in cui gli eventi si delineano con l’urgenza e la rapidità di un lampo.

Walser si sposta nel tempo. Ma più di sovente sono le immagini (con esse i giorni, le ore) che attraversano il narratore e non viceversa. Lo trascinano via, facendo assumere anche al racconto nel quale si inseriscono una nuova fisionomia. Così la grigia, monotona, immobile atmosfera che si respira all’interno dell’istituto Benjamenta sorprendentemente si ravviva, o addirittura si dissolve per lasciare il posto a scenari e paesaggi ripescati in un remoto passato. Leggiamo, dallo Jakob von Gunten: «Che fantasie mi vengono in mente ogni tanto! Da rasentare l’assurdità. Di colpo, senza che potessi impedirlo, ero diventato un condottiero degli anni intorno al 1400, no, un po’ dopo, al tempo delle campagne di Lombardia. Eravamo a mensa, io coi miei ufficiali. Avevamo vinto da poco una battaglia, e nei prossimi giorni la nostra fama sarebbe corsa per tutta Europa»[23].

È un vagabondaggio lungo un sentiero che si muove tra il sogno[24] e i ricordi. La narrazione procede così spostandosi su diversi piani temporali. E talvolta affiorano memorie che hanno il sapore e l’invadenza di un rimorso, che gettano  sullo spensierato vagabondaggio un’ombra cupa, qualcosa di simile a un presentimento, a un lutto: « Da dietro le spalle mi lambirono rimorsi e mi vennero incontro sul cammino. Mi sentii invaso da certi tristi ricordi. Accuse d’ogni sorta, appuntandosi contro di me, mi gravavano sul cuore. Dovetti lottare duramente […]. Antichi errori, ormai remoti nel tempo, mi tornarono alla memoria: infedeltà, dispetto, falsità, perfidia, odio, una quantità di brutte, violente scenate, sfrenati desideri, incontrollata passione. Vidi chiaro quanto male e quale torto avevo fatto a tante persone. Nel sottile sussurrìo che mi circondava, l’onda dei miei pensieri salì fino a riempirmi di tristezza»[25].

Il passato prende possesso del personaggio, lo accompagna, lo sospinge. Il risultato è una scrittura in cui gli sbalzi temporali aprono continue crepe, ferite. Uno spazio vuoto.

Ed è ragionando sul tempo, sulla sua natura e il suo significato, che è possibile avvicinarsi all’essenza di quel vuoto, interrogarsi sul senso del procedere dei giorni, sui momenti passati, ma anche sul profilo di quelli futuri:

«Qui io provo sempre la sensazione del tempo che passa, ed è una cosa che fa veramente bene, perché allora un uomo non ha più bisogno di pensare. Ma il più delle volte è diverso. È così silenzioso! Ma è questa, in fondo, la vita? Una cosa che non si può sentire e che corre verso la fine?»[26].

 

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Qualcosa che fugge via

 

Tra le prime righe del racconto Una cena elegante ci imbattiamo in queste parole: «Ma qualcosa di indistinto mi attraeva, e continuai per la mia via sotto la buia cappa di nuvole»[27]. È una frase che individua un tema fondamentale in Walser, già affiorato quando si è affrontata la presenza della musica nella sua opera: la  mancanza di qualcosa è ciò che manda avanti il racconto.

L’attrazione verso l’ indefinito, verso ciò che è assente, è il segno della diversità dell’artista, dello scrittore. Walser costantemente racconta la ricerca di un luogo altro, di una strada che sia unica, e propria, anche se dovesse poi identificarsi con la malattia, la solitudine: «C’è neve – racconta in Un ceffone e altre cose sulle strade e sulle piazze, sui monumenti e sui tetti, questo si intona al periodo di capodanno. Lascio volentieri agli altri i dolciumi e gli alberi di Natale.  Gli scrittori sono magnifici per il fatto che sanno assistere alla gioia dei loro simili senza subito pensare che avrebbero dovuto prendervi parte»[28].

Scrivere implica una diversità, il prendere le distanze dai riti e dalle occasioni che agli altri portano serenità, che manifestano adesione alla vita. Lo scrittore procede seguendo un’altra strada, ma soprattutto avendo un’altra meta, nemmeno a lui chiara, prefissata, ma pur sempre capace di suggerire la necessità del cammino.

È una situazione che non costituisce soltanto una fase, un momento della vita, ma il fondamento della poetica di Walser, la condizione che trasforma lo scorrere dei giorni in un destino. Lo si vede chiaramente in una delle Storie che danno da pensare: «C’è sempre un problema, un pensiero, uno spettro, un qualcosa che fugge via, e dentro di lui sempre si incrina, risuona, e lui immagina, immagina sempre di non essere fedele a un che di bello, di incoercibile, di raccapricciante, qualcosa che è presente e non lo è mai, non lo è mai perché è questa cosa stessa, perché è lui a essere questa cosa che è presente e sempre fugge via»[29].

Dove può condurre questo movimento inesausto? Forse a concepire la bellezza come una realtà inscindibile dall’esperienza dell’abisso, sempre in contrasto con la logica e le consuetudini del proprio tempo[30]. Forse a rendersi conto che anche quando tutto appare immobile, confinato all’interno di pareti, di stanze – come la mansarda dell’albergo Zum Blauen Kreuz di Biel, dove Walser alloggiò alcuni anni dedicando molte ore della giornata  alla stesura dei suoi romanzi e dei suoi racconti – anche allora esiste la possibilità di aprire nuovi spazi. Almeno fino a  quando si è in grado di comporre una pagina, una frase. Lo si vede, per esempio, in un racconto dedicato a Hölderlin: «Per te il benessere è troppo piccolo, la pace nella limitatezza troppo banale. Per te tutto è e diventa abisso, infinità. Tu e il mondo siete come un mare»[31].

 

La scrittura e la  forma

 

I personaggi, i protagonisti delle innumerevoli storie di Walser danno la sensazione di  essere qualcosa di inafferrabile, difficile da circoscrivere, sul punto di scomparire. Lo abbiamo appena visto: «è lui a essere questa cosa che è presente e sempre fugge via».

Ciò rende più agevole spostare l’attenzione sui limiti del discorso, a cominciare dalla critica dei suoi eccessi, della sua imponenza. Walser ama tutto ciò che è piccolo, quasi impercettibile, le briciole dei giorni e delle notti, la scrittura a matita, i segni che sfidano i tentativi di interpretazione, i vocaboli messi di sbieco, inadeguati. Dall’avviluppata è già ricordata matassa dei microgrammi si possono ricavare alcune, indicative parole. Per esempio: «Amo le frasi, nella misura in cui esse evitano la magniloquenza»[32], affermazione che sembra fare eco a un’osservazione presente nello Jakob von Gunten: «Fra noi discorriamo di sciocchezze, talvolta anche di cose serie, ma sempre evitando le grandi parole. Non c’è niente di più noioso delle belle parole»[33].

Per evitare di cadere in errori simili, Walser è disposto a procedere smarrendo, o ingarbugliando,  il filo del discorso. Lo conferma di nuovo lo Jakob von Gunten: «Sto parlando a vanvera. Come odio tutti questi termini calzanti»[34]. E comprendiamo come per Walser scrivere sia un’operazione sempre problematica, per niente facile, tale da consumare, a volte in un tempo davvero breve, tutte le sue forze. Lo confessa in un’altra pagina del romanzo: «Oggi bisogna che smetta di scrivere. Mi eccita troppo, mi scombussola. E le lettere mi fiammeggiano e mi ballano davanti agli occhi»[35]. Anche ascoltando il narratore de La passeggiata,  il risultato non cambia: «Gli scrittori (…) gradiscono ogni tanto posare per un poco la penna. Scrivere ininterrottamente stanca come lavorar di vanga»[36].

Eppure questa scrittura che sfianca come il lavoro di un contadino, che sembra procedere a caso, che si dichiara inessenziale, se non del tutto inutile, questa scrittura non può fermarsi, né tanto meno rimanere uguale a se stessa. Di qui l’inquietudine che attraversa le pagine di Walser, quel desiderio di deviare dalla linearità della frase, quel continuo incespicare, e sbandare. Sono momenti contagiati dalla necessità di riprendere il discorso, di proseguire, di non finire mai, di aggiungere ancora una nuova, un’altra frase: «Cosa rappresentano per me queste considerazioni che svolgo aprendo delle parentesi? Qualcosa come dei momenti di riposo, oppure qualcosa di paragonabile a dei ponti che getto sui momenti in cui forse non mi viene proprio in mente nulla di nuovo da comunicare, simile a un capomastro che costruisce dei ponti al di sopra di fiumi che devono essere attraversati e, come si è soliti fare nel campo della morale, quando ci si trova di fronte a cattiveria e testardaggine»[37].

Ne deriva che quanto resta sulla pagina – la lettera, il foglio di diario, il pezzo in prosa – si presenta come un corpo dall’incerta fisionomia, un’identità non del tutto definita («…scrivo qui una redazione in prosa che ha il carattere di una lettera che a sua volta assomiglierà  a una poesia, se il risultato corrisponderà al mio desiderio»[38]). Così il racconto che all’inizio presentava una data forma alla fine rivela una natura affatto diversa («In effetti, io volevo raccontare tutta un’altra cosa. Non volevo affatto scrivere una storia»[39]).

Ma si tratta soltanto del preludio a un finale, quasi inevitabile rovesciamento di prospettiva, che condensa tutta l’esperienza umana e creativa di Walser e trasforma la dimensione spettrale delle storie e dei personaggi nel suo indelebile profilo di scrittore. È indubbio, infatti, che nell’ultima fase della sua attività Walser abbia realizzato dei testi in cui si manifesta l’aspetto più interessante, innovativo e spiazzante del suo percorso letterario. Perché è proprio negli limiti esigui, a volte impraticabili, dei microgrammi che la scrittura mostra il suo dinamismo, la sua capacità di comunicare, la sua forza, dissimulata ma incontenibile. Come una musica, che diventa tanto più intensa quanto più si avvicina, senza raggiungerlo mai del tutto, al silenzio.

 

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[1] Storie, tr. it., Milano, Adelphi, 1993, p. 14.

[2] La passeggiata, tr. it., Milano, Adelphi, 1990, p. 40.

[3] I fratelli Tanner, tr. it., Milano, Bompiani, 1983,  p. 60.

[4] La passeggiata, cit., pp. 42-3.

[5] I temi di Fritz Kocher,  tr. it., Milano, Adelphi, 1978, p. 61.

[6] Ivi, pp. 61-2.

[7] Ivi, p. 62.

[8] Ivi, p. 64.

[9] Carl Seelig, Passeggiate con Robert Walser, tr. it., Milano, Adelphi, 1981, p. 35.

[10] Ivi, pp. 35-6.

[11] Vita di poeta, tr. it., Milano, Adelphi,  1992, p.84.

[12] Il Brigante, tr. it., Milano, Adelphi,  2008, p.11.

[13] Ivi, p. 13.

[14] Ivi, p. 17: «Tuttavia è da irresponsabili essere sbadati come me».

[15] Ivi, p. 117: «Il Brigante appartiene a quella categoria di persone che nell’irresolutezza sono autentici titani».

[16] Ivi, p. 85.

[17] Ivi, p. 151.

[18] Strategia che nulla toglie alla forza della scrittura, al contrario ne accentua la qualità corrosiva; significativo, benché da leggersi tenendo conto della consueta ironia walseriana, questo passo del Brigante, cit.,  p. 102: «… ora mi placo e mi modero e mi faccio piccolo come Pollicino. Coloro che sono realmente forti non amano esibire la propria forza».

[19] Diario del 1926, tr. it., Genova, Il Melangolo. 2000, p. 114; e cfr. Il Brigante, cit., p. 105: «Confido infatti che interrompermi non mi impedirà di riannodare con vero brio lo stesso tema».

[20] Diario del 1926, cit. p. 38.

[21] W. G. Sebald, Il passeggiatore solitario, tr. it., Milano, Adelphi, 2006.

[22] Il Brigante, cit. p. 83.

[23] Jakob von Gunten, tr. it., Milano, Adelphi,  1992, p.113.

[24] Significativo che il libro, in cui la dimensione onirica ha senza dubbio uno spazio importante, termini con il lungo racconto di un sogno.

[25] La passeggiata, cit., pp. 96-7.

[26] Storia di Helbling, in La fine del mondo e altri racconti, tr. it., Locarno, Dadò, 1996, p. 48.

[27] Una cena elegante, tr. it., Macerata, Quodlibet, 1993, p. 127.

[28], La rosa, Milano, Adelphi, tr. it., p. 81.

[29] Storie che danno da pensare, tr. it., Milano, Adelphi,2007, p. 88. E poco dopo ribadisce: « Che di se stesso non riesca mai a conseguire una sicurezza o una garanzia, questo sembra il suo destino…» (ivi, p.89).

[30] In un racconto del 1914, Oskar, leggiamo: «Nessun giovane avrebbe potuto trovare gradevole una simile esistenza. Ma lui ormai voleva così. Si era imposto di trovare bella questa sua maniera di vivere. Voleva vedere la bellezza, e la vide, sondare l’abisso, e lo sondò, conoscere la miseria, e la conobbe» (La fine del mondo e altri racconti, cit., p. 75. Sul tema della mancanza, sulla sua importanza nell’opera di Walser è esemplare questo passo tratto da I fratelli Tanner: «…una mancanza, una perdita rende le cose ancora più belle. A me e a tutto il paesaggio mancherà qualcosa, ma questo vuoto e perfino questa mancanza imprimeranno nella mia vita sentimenti ancora più profondi» (p. 149).

[31] Vita di poeta, cit., p. 134.

[32] Le territoire du crayon, tr. fr., Carouge-Genève, Zoé, 2003, p. 263.

[33] Jacob von Gunten, cit., p. 19.

[34] Ivi, p. 54.

[35] Ivi, p. 88.

[36] La passeggiata, cit., p. 42.

[37] Diario del 1926, cit., p. 40.

[38] Le territoire du crayon, cit., p.

[39] Le territoire du crayon, cit., p. 53.