Per fortuna ci sono le scoperte astronomiche. «Ecco la notizia che tutti aspettavate», hanno sentenziato qualche mese fa gli scienziati della Nasa annunciando ai media e alla comunità internazionale la scoperta del “pianeta gemello” della Terra, Kepler 452-b. Una volta l’uomo aspettava notizie meravigliose dagli esploratori di terre sconosciute e remote, oggi le aspetta dagli scrutatori dell’universo. E così l’idea di lontananza è obbligata a fare i conti con orizzonti invisibili, interplanetari. Il fatto è che ormai ci si può dirigere dappertutto con estrema facilità e velocità, e il globo terracqueo si è come rattrappito. Gli uomini si annoiano perché hanno necessità di vedere cose nuove, e invece davanti agli occhi si ritrovano sempre le stesse situazioni, le stesse popolazioni che magari hanno già intravisto nei documentari alla tv, gli stessi posti che conoscono già dalle immagini dei telegiornali o dalle foto degli amici sui social network. Il turista è una figura triste e pensierosa, sorpassata e in via di estinzione. Per ovviare alla noia, cosa c’è di meglio di una bella vacanza, magari definitiva, su un pianeta a qualche milione di anni luce dalla Terra? È a questa logica – decadente, edonista, nichilista, secondo la quale il nuovo corrisponde sempre e soltanto a qualcosa di straordinario – che devono essersi ispirati anche gli scienziati della Nasa annunciando con tono eclatante la loro formidabile scoperta.
Su una lunghezza d’onda completamente diversa sembra collocarsi invece Mariano Bàino, che non solo si è preso la briga di andare a fare un viaggio nella terrestre Patagonia, ma addirittura ci ha scritto su un libro, “in (nessuna) patagonia” (Ad est dell’equatore, 2015). All’opposto degli scienziati della Nasa, il punto di partenza di Bàino è la nobile e ordinaria tradizione etnografica dei viaggiatori capaci di rintracciare il meraviglioso anche nel più scontato e banale dei paesaggi, anche nel più turistico e alla moda (e turistico e alla moda, oggi, è tutto il mondo). Da subito, però, la domanda cruciale si fa sentire: è ancora possibile praticare un tale genere letterario, pur in aperta polemica con tutti i nichilismi, edonismi, spettacolarismi? Il libro di Bàino è il tentativo – vedremo infine se riuscito o meno – di far rivivere la tradizione illustre dei resoconti di viaggio per sfidare sul campo l’etica e l’estetica dominanti.
Benché si capisca subito che l’esito di questa sfida non è affatto scontato, e che l’epilogo non avrà nulla di edificante perché l’umanesimo gorgogliante dal genere letterario in questione troverà di sicuro tutte le porte chiuse, in apertura di “in (nessuna) patagonia” leggiamo una precisa dichiarazione d’intenti, in cui il narratore spiega come mai abbia deciso di riprendere a stupirsi dopo la «fine dello stupore» (quello antico, vero, non quello di risulta a cui si riferiscono gli scienziati della Nasa). Con piglio rilassato, decostruisce l’idea di viaggio («non il viaggio in sé, ma l’idea di viaggio», perché «abbiamo viaggiato troppo» e «letto tutti i libri di viaggio»), citando i canonici Lévi-Strauss e Busi: «Odio i viaggi e gli esploratori» e «La gente che non scopre niente di solito scopre la geografia». Fatta tabula rasa dell’idea di viaggio, la conclusione è paradossale: «degli ohibò per la fine di tutto, e di qualsivoglia stupore, non ne posso più». È una resa dell’intellettuale illuminista e disincantato, un’anestetizzazione della ghiandola pineale, una botta di giovinezza e ingenuità? Capiremo strada facendo.
Possiamo dunque partire per la Patagonia? No, ancora non è il momento. Prima bisogna capire da che cosa ha avuto origine il desiderio di esilio volontario nella terra per eccellenza dei fuggitivi e dei perseguitati. Bàino è animato da un forte impulso morale e politico: egli fugge da «una vita strozzata dall’italia [come nel titolo, sempre in minuscolo nel libro, ndr], dall’umana compagnia italica o italiota. Stirpe che si fa guidare dagli imbecilli che hanno fama di essere machiavellici. Un’eterna ragazzaglia…». La meta patagonica è scelta provocatoriamente, come solo un intellettuale coltissimo potrebbe fare, per sfidare lo stereotipo del viaggio kitsch, ma anche per scrivere finalmente qualcosa «in viaggio» e «di viaggio», non fosse altro perché è con gli strumenti della sua arte che Bàino (versato peraltro da decenni nei più disparati generi, dalla poesia al romanzo alla critica letteraria) intende affrontare la questione morale e politica.
Comincia finalmente l’avventura patagonica. E cominciano ad apparire i più svariati fantasmi, che sembrano saltar fuori proprio per mettere alla prova lo scrittore che vuol scrivere oggi un libro di viaggio. Si tratta per lo più di fantasmi letterari (quelli reali hanno un peso decisamente minore: qualche abitante del luogo, qualche animale), che danno un sapore particolare allo stupore che pure aveva spinto il Capitano Bàino a salpare in cerca di qualcosa di nuovo. È uno stupore, come dire, controllato, algido, erudito, con riassunti accattivanti da altri libri, annotazioni curiose su geografi ed esploratori misconosciuti, citazioni colte da autori più e meno noti. È lo sguardo della mente a farla da padrone nella ricerca dello stupore e a rendere prezioso e originale il libro di Bàino, il cui carattere precipuo è la tendenza ad accumulare e rimuginare, che raggiunge vertici notevoli di bravura espressiva, riuscendo a emozionare, ad esempio, con la chiosa degli appunti di Pigafetta sui giganti patagonici, con i resoconti dei viaggiatori o con i commenti su saggi storici ed etnografici. Ogni annotazione riesce sempre a farsi racconto e a coinvolgere il lettore in un’avventura dagli spunti variegati.
È anche per questo che alla fine ci si accorge che forse “in (nessuna) patagonia” non è un libro di viaggio, è qualcosa di più. Del resto, non poteva essere diversamente, come fin dal principio si era sospettato (il narratore stesso aveva sospettato), essendo sparito il mondo nel quale tale genere letterario era ancora praticabile. Per certi aspetti, il libro di Bàino potrebbe essere definito un pamphlet contro l’Italia, un sacrosanto pamphlet nel quale si dice finalmente la verità. Soprattutto, però, “in (nessuna) patagonia” è un’opera che fortunatamente manca l’obiettivo di realizzare un ingenuo taccuino di viaggio, trasportandoci verso una riflessione più stimolante e complessa.
L’approdo finale a una casa solitaria in collina, che accoglie il disincantato narratore che, dopo essersi reso conto che «in nessuna Patagonia potrà dimenticare le infelici condizioni» di un’Italia immersa in «una notte scurissima», sogna le nuove generazioni avanzanti come un quinto stato, è un epilogo melanconico che indubbiamente ha ben poco di stupefacente. Viene in mente, a questo punto, che verso la metà del suo viaggio, il narratore stesso aveva evocato il perfido Grande Inquisitore dostoevskijano come emblema del cinismo moderno. “in (nessuna) patagonia” era partito dalla «fine dello stupore» (sintomo cinico per eccellenza) desiderando vivamente arrivare alla sua negazione, ma in conclusione non ha potuto far altro – ciclicamente quasi – che riconfermarla. Il viaggio terrestre non è servito a nulla, non ci ha stupiti di nulla, ci ha reso solo più umani e più cinici: ma in senso nuovo, in senso deformante, allontanandoci e separandoci dal mondo perché è l’unica cosa giusta da fare, l’unica cosa buona. “in (nessuna) patagonia” potrebbe essere definito un romanzo di deformazione, in quanto il suo epilogo è un approdo solitario alla consapevolezza che bisogna «onorare l’essenziale» e niente altro, oggi più che mai. L’esito del viaggio non è tanto una modifica dell’animo del protagonista nella sostanza dei sentimenti e dei pensieri, che restano mossi dal disincanto della riconfermata «fine dello stupore», quanto un invito a fare un salto all’indietro oltre la Storia, naufragando magari in una terra sconfinata dove restano la terra, il cielo, una casa su una collina.
Eppure dietro ogni consapevolezza si nasconde un’ombra. Cosa c’è dietro la consapevolezza di “in (nessuna) patagonia”? Forse una delle più profonde verità dell’attuale vita globale, enunciata peraltro nel libro per mezzo di una citazione leopardiana: «chi più si ama, meno può amare». Bàino mostra un ardimento che raramente si incontra nella letteratura odierna: egli vuole avvicinare i (suoi) narcisisti lettori moderni, che non vivono più in comunità perché troppo impegnati a rispecchiarsi pubblicamente in se stessi, dispersi nel mondo ciascuno a curare il proprio bozzolo, reale o virtuale poco importa. E lo fa per tutto il tempo del racconto, rispecchiandosi a sua volta nel mare magnum della propria cultura, del proprio sentimento morale, del proprio umanesimo, per arrivare a capire infine che ogni rispecchiamento serve a poco, e che lo stupore è finito perché probabilmente non è mai iniziato, ovvero la fine era già iscritta nel suo principio, nell’amor proprio che esiste da sempre e che appanna lo sguardo rendendolo cupo e sospettoso. È questa la verità che riemerge con forza, in tutte le pieghe della vita sociale e dell’opera di Bàino, mettendo fine così alle immaginazioni del Grande Inquisitore, che, novello o arcaico Principe, aveva ancora il problema – politico, morale… umanistico – di ridurre a uno la diversità umana e naturale.
Fine dello stupore, fine del Grande Inquisitore, e fine anche del Grande Fratello, che del personaggio dostoevskijano era la più genuina protuberanza. Nessuno ci controlla, nessuno ci angustia, nessuno ci ama, se non noi stessi: che ci amiamo, ci angustiamo e ci controlliamo da soli. Noi, soli e sperduti su una collina qualsiasi o davanti a uno schermo. «Il Badalucco è dentro di noi», sentenziava Attilio Vecchiatto, evocando un altro emblema inquisitorio con il quale Bàino ha il coraggio di fare i conti nel corso della sua rassegna di fantasmi. O anche: «Ciascuno è diventato una patria per sé», come diceva Leopardi, preannunciando l’Epoca del Panottico, dove, interiorizzata o ingurgitata la figura del Grande Inquisitore, ciascuno sorveglia meschinamente se stesso, prima e più degli altri.
Non è forse per questo, allora, perché un Piccolo Inquisitore è ormai sempre più radicato dentro di noi, che tutti sono sempre in attesa delle notizie eclatanti degli scienziati della Nasa, dell’ultima serie tv o del nuovo dispositivo tecnologico? – e non di una “sinistra che fa sognare”, della “giustizia sociale” o di libri come “in (nessuna) patagonia”?