Il passato è stato l’anno di un anniversario particolarmente corposo e rotondo, ovvero duemila anni dalla morte di Ottaviano Augusto (19 agosto del 14 d.c.). Se ne è discusso per la scarsa eco nel paese, forse dovuta a carenze organizzative e di marketing, forse, ipotizzava allora Maurizio Bettini su «La Repubblica», alla mancanza di feeling con un personaggio troppo classico da parte del nostro tempo, che potrebbe viceversa entrare in empatia con i gesti estremi d’un Nerone. Eppure si potrebbe seguire un’altra pista, offerta da Augusto figlio di dio di Luciano Canfora (Laterza 2015), laddove l’imperatore Giuliano, che scrisse la satira Cesare, bollava il suo predecessore come “camaleonte”, riprendendo parodicamente l’esordio delle Rese gestae e forse la lunga tradizione propagandistica nata dall’autobiografia apologetica del sovrano. Il nostro è infatti il tempo dell’ibrido: ciò significa possibilità moltiplicate, convenzionalità, controllo, ipocrisia e ambiguità, addirittura maschera, incertezza, superamento del limite, anche mostruosità. E personalmente, ritagliando il piano politico da quello più generalmente culturale, mi pare che Augusto potrebbe proprio fornirci un origine dell’ibrido occidentale e, in particolare, italiano.
Liquida cerniera tra Repubblica e Principato sta il dominio di Ottaviano, chiamatosi Augustus e non Romolus proprio per evitare evocazioni monarchiche. Dunque anche il giovane nipote di Cesare, come il Vecchio fiorentino di cui parleremo poi, affettava comportamenti modesti, quali il raro uso della lettiga, la presenza di soli dodici littori. Intanto andava cariando dal di dentro le istituzioni repubblicane, lasciandone bene in vista le quinte teatrali: dalla Curia furono espulsi in due diversi momenti 210 patres, ma con deferenza il Cesare chiedeva sempre al Senato se volesse rinnovargli i poteri straordinari; per sette volte consecutive fu nominato console ma sempre con accanto una seconda figura con le stesse teoriche funzioni. Sempre favorevole ad ascoltare le suppliche del popolo, inserì nei Comizi popolari suoi candidati e comunque ne ridusse i poteri, anche se portò a compimento l’immenso edificio ad essi dedicato ai piedi del Campidoglio. Sappiamo infine dell’attento controllo sulla cultura, con la protezione dei massimi autori, beneficati ma tenuti ad un’arte morale, se non all’encomio e alla divinizzazione del potere, fingendo di amare un’arte semplice e tradizionale, proprio lui, formatosi come Cesare, sui più raffinati autori greci.
Dando profondità temporale al nostro ibrido politico se ne rinvengono esempi significativi in molti momenti della storia italiana, quasi fosse una declinazione nazionale, a seguire il modello augusteo. In questa sede non andremo ovviamente oltre qualche accenno. Nel 1434 Cosimo de’ Medici tornava a Firenze dall’esilio di un solo anno rispetto ai dieci previsti dalla condanna; toccherà ai suoi avversari politici nella Signoria nascente, Albizzi e Strozzi, partire dalla città: il Vecchio per trent’anni ne eserciterà un discreto quanto fermo controllo. I primi provvedimenti riguardanti le Balìe, gli Accoppiatori e i Segretari degli scrutini gettano le basi di quel potere personale che entra pervasivamente nelle istituzioni repubblicane, ibridandole in modo da aprire un lungo dominio, poi in parte più esplicito, della casata dei Medici su Firenze. Dopo il 1466, sbloccate le liste, Machiavelli nota nelle Istorie fiorentine che si sceglievano magistrati a sorte, ma che “per essere le borse piene de’ suoi amici, egli non correva alcuno pericolo”, benché “riduttasi la città a creare i magistrati a sorte, pareva alla universalità de’ cittadini avere riavuta la sua libertà”. Egli, cioè il “prudentissimo” Cosimo che, “nelle conversazioni, ne’ servidori, nel cavalcare, in tutto il modo di vivere, e ne’ parentadi, fu sempre simile a qualunque modesto cittadino”, riuscì in un periodo assai tempestoso a tenere in mano una cittadinanza “volubile”, tanto da essere poi seppellito con grandi onori come padre della patria.
Vi sono altri successivi momenti che qualificano la storia italiana, almeno quanto le corti rinascimentali, confermando l’attitudine all’ibrido, forse accostabile alla nostra intima, cinica attitudine teatrale. Si può partire dalla oleografia di Teano, geniale e pragmatico compromesso o perversa ibridazione tra monarchia e rivoluzione, ultimamente denunciata assumendo il punto di vista dei radicali perdenti (Noi credevamo di Martone). Dopo il 1860 per la verità fu assai robusto il coro di intellettuali e letterati delusi dalla conduzione politica; De Roberto ne I Viceré ci mostra Consalvo Uzeda, nobile e democratico, tenere alla folla plaudente un comizio che tiene insieme ogni istanza contraddittoria, commentato alla fine da due insolenti giovanotti: “Adesso che ha parlato, mi sapete ripetere che ha detto?”. Siamo alla vigilia delle maggioranze variabili che trovano, in un ritratto giornalistico del tempo, una realizzazione addirittura antropologica in Depretis: “Il padre del trasformismo, per farsi accettare dalla monarchia, si era trasfigurato anche fisicamente e in molti deridevano, accanto al progressivo scollamento tra i paroloni di un tempo e la sua scialba azione di governo, la metamorfosi che in pochissimi anni lo aveva portato dal tabaccoso colla barba ispida di prima del 1882 al vecchio colla barba allungata e pettinata di dopo il 1882”. Venne poi Giolitti, con il suo costitutivo strabismo di condotta tra riformismo nel campo del lavoro, a beneficio soprattutto del nord del paese, e spregiudicato conformismo verso il peggiore andazzo meridionale sempre guidato dai ceti più conservatori. Se si passa poi a ciò che dovrebbe essere l’omogeneità di un regime totalitario le sorprese non mancano.
Leggiamo per esempio le valutazioni che Piero Calamandrei faceva tra ’43-45, poi lezioni nel dopoguerra, oggi Non c’è libertà senza legalità (Laterza 2013): “Ma se da una parte le vecchie istituzioni continuavano a far finta di nulla, rimanendo imperturbabili al loro posto, dall’altra le nuove autorità non ebbero il coraggio di istituire organi che rispondessero sinceramente alla nuova realtà politica. Sarebbe stata logica l’abolizione di ogni istituto rappresentativo e una organizzazione pubblica che avesse francamente affidato la formulazione del diritto al dittatore e alla sua cricca oligarchica: viceversa si continuò a parlar di rappresentanza, di regime parlamentare, di leggi discusse e votate da organi che dovevano essere le espressioni di un corpo elettorale.” Ciò attiene alla potenza e alla finzione dell’ibrido, che amplia il suo chiaroscuro all’intera società, invadendo la coscienza stessa degli individui: “Non credo che nella storia si sia mai verificato un caso consimile: una commedia rappresentata così a lungo, di questi servitori che rappresentano la parte dei legislatori senza esserlo, di questi sudditi oppressi che continuano a rappresentare la parte degli elettori senza aver niente da eleggere, cioè da scegliere, poiché la scelta era già stata fatta per loro dal loro padrone e dai loro satelliti.” (p. 50).
Venendo alla più stretta attualità si pensa ai limiti di qualsiasi manovra politico-sociale imposti dalle dinamiche finanziarie globali, ai trucchi per le rielezioni delle élite, ovunque alla telecrazia che fa aggio sulla partecipazione e alla crescente diminuzione della percentuale dei votanti che rendono il modello democratico europeo qua e là fortemente ibridato con una conduzione politica autoritaria di diversa declinazione, autocratica o oligarchica. Oggi in Italia si aggiungono a tali fattori le liste preconfezionate e bloccate, ormai ufficialmente anticostituzionali, le maggioranze parlamentari ed innaturali che dal governo Letta a quello di Renzi non sono cambiate. E si può chiudere allora il breve excursus sulle forme ibride caratteristiche dell’Italia portando in luce l’elefante nascosto in penombra, ovvero il sontuoso e plurisecolare connubio tra la più alta guida spirituale dei cattolici e un capo di stato, che, nonostante i benemeriti atteggiamenti del nuovo papa, resta nel cuore del paese come un insensibile e ormai introiettato modello.