Chissà da dove era arrivato il tappeto persiano che mi fu regalato, un tappeto non antico ma che certo aveva almeno un centinaio di anni, o forse assai di più. E chissà quindi dove era stato fino a quel momento, quando era arrivato a me. Era stato ripiegato in una pila di altri tappeti in un bazar, proprietà di un mercante che lo aveva venduto a qualcuno che lo aveva portato fin qui? O era stato a lungo in una casa, nella dimora per esempio di un signore in un’oasi della Persia, tra specchi incastonati in cornici di gesso, sotto basse volte, con la luce che filtrava da piccole vetrate multicolori, tra sofà di velluto sanguigno? o in un salotto europeo su un parquet incerato? in uno studio, con una imponente scrivania e librerie scure, oppure in un ingresso, magari con una statua di marmo in una nicchia? Perché certo veniva subito da pensarlo in un ricco ambiente tradizionale, o solidamente borghese. E chissà come appariva là dove stava, sicuramente del tutto diverso da come appariva nella stanza dove lo misi, e dove fu subito chiaro che non c’entrava nulla. Lo guardavo, lì dove lo avevo messo, ne osservavo i complessi ghirigori, i colori, le combinazioni, cercando di farmelo piacere, ma continuava ad apparirmi del tutto estraneo.
Il tappeto persiano era stato un regalo. Un regalo comprato ad un’asta che si era tenuta in un piccolo teatro in un pomeriggio di inverno, ma nulla c’era stato di gradito nel riceverlo, così come nessun affetto era stato speso nel comprarlo. Un tappeto non per me, avevo pensato appena mi era stato consegnato e tuttavia ne pettinavo accuratamente la frangia come se il suo essere perfettamente allineata potesse rendermelo meno sgradito, ma mi invadeva una sensazione di angoscia: era lì, diventato mio senza che lo volessi, ingombrante, definitivo. Nulla aveva a che fare con la casa ancora provvisoria dove ero appena andata a vivere, con i tavoli, semplici piani di abete poggiati su cavalletti, con le librerie disparate, nulla a che vedere neppure con l’idea di come sarebbe dovuta diventare in futuro. Per quelle stanze che non avevano ancora una fisionomia ci sarebbe voluto un tappeto a motivi elementari come gli imperfetti, geometrici kilim tunisini dai colori accesi, tessuti dalle donne, e che conservano il lieve sentore di urina con cui la tintura viene fissata insieme a quello del fumo di legna dei gourbis dove, nelle campagne, si vive e dove il telaio verticale definisce e separa lo spazio femminile.
Era un tappeto annodato, rosso, azzurro, blu, con il grande campo centrale a motivi floreali intricati, complicate volute, rosoni, contornato da una bordura rettangolare rosso spento. Aveva richiesto di certo un lavoro interminabile e attento, chissà quanti mesi, giorni e ore. Perché quei decori curvilinei sulla struttura a linee verticali e orizzontali delle catene dell’ordito e dei fili della trama erano stati resi possibili dalla tecnica a nodi così minuti da divenire i punti colorati di cui erano composti. Nodi fatti dalle bambine che siedono al telaio accanto alle donne proprio a questo scopo, perché solo le loro dita fini e agili possono ottenere quel risultato. E tuttavia non mi evocava nulla, non mi sollecitava alcuna fantasia. Gli azzurri mi apparivano mal combinarsi coi rossi, e non rimandavano al significato che a volte si dà a questo colore connesso, quando è chiaro, ai sentimenti, allo sguardo che si rivolge al cielo pensando all’amato e alla riflessione, a misteriose profondità quando è invece cupo, saturo di indaco. Né il rosso mi faceva pensare al melograno o alle guance delle fanciulle nelle miniature. Non trovavo poesia nel motivo boteh, “i cespugli, gli arbusti”, motivo a mandorla o a fiamma incurvata in cima, forse fuoco di Zoroastro o forse cipresso, motivo antichissimo e che risale agli Sciti, né vita in quelle elaborazioni stilizzate del mondo vegetale rese con centinaia di fili accuratamente annodati a formare i minuscoli ciuffi, poi battuti con l’apposito strumento e infine rasati per dare al tappeto la consistenza di uno spesso velluto.
Il tappeto, oggetto il cui ordito “fu filato col filo dell’anima”, come recita l’iscrizione intessuta in un prezioso esemplare di Tabriz, può essere indecifrabile come un mistero. Per coglierne ogni aspetto, e le trame del testo che contiene, bisognerebbe conoscere a fondo la tradizione in cui è nato, la tecnica con cui è stato confezionato, analizzarne i decori e gli intrinseci significati oltre a quello delle loro reciproche disposizioni, sapere da chi e come è stato trasmesso ciò che è servito alla sua creazione. Bisognerebbe conoscere le ricette per la tintura delle lane, come furono preparate le radici della Rubia tinctorium, che dà il rosso nelle sue gradazioni dal terracotta al porpora scuro, i fiori e i petali del Cartamus per il giallo che arriva fino all’arancio, i chicchi di melograno o le foglie autunnali della vite, o anche la buccia di limone, per il giallo nella sua sfumatura più pallida, il nil, l’indaco, che conferisce alla lana le diverse sfumature di azzurro fino al blu cupo. Bisognerebbe conoscere il codice dei colori e ancor più il linguaggio dei segni che hanno fatto di quel tappeto il ricettacolo di quella particolare narrazione.
Di quel tappeto che mi era stato regalato non sapevo invece neppure la provenienza esatta. Venuto dalla Persia sì, ma da quale luogo? Probabilmente dall’oasi di Kashan o piuttosto da Isfahan, ma chissà su quali alture avevano pascolato le pecore che avevano dato la lana per tesserlo, in quali ruscelli di acqua chiara la lana era stata lavata, dove erano state raccolte le piante, quali mani avevano annodato i fili alle catene dell’ordito, chissà come era arrivato fin lì, fino al piccolo teatro dove si era tenuta l’asta… Se tutto questo non mi era noto, subito però avevo saputo che con me non aveva nulla a che fare.
A volte mi sedevo a guardarlo. Era come una sottile ossessione. Perché proprio quello? quando ne esistevano di certamente meno preziosi ma talmente attraenti nell’enigma del loro disegno! Tappeti che portano a interrogarsi su quali influssi disparati e quali tradizioni artistiche di remote tribù nomadi abbiano dato luogo a quel particolare universo fantastico. Tesori di tecnica e di fantasia come quelli di Kerman, in Persia, mondi di uccelli, frutti, fiori, e farfalle, che riportano alla mente quello enorme, detto “primavera di Cosroe” e risalente al VI secolo, di cui parlano le fonti, raffigurante un prato fiorito, con alberi, ruscelli e sentieri, tessuto con seta, oro e argento e impreziosito da perle e smeraldi. O come il piccolo tappeto quadrato esposto nel negozio di Zeeen sulla Pasdaran di Tehran che aveva attratto subito il mio sguardo. Rappresentava il bâgh-i hasht bihisht, il giardino del Paradiso, giardino che in Persia è concepito come oasi nel paesaggio arido e montuoso del deserto, ricca di acqua e che si coltiva con alberi di varie specie, cipressi, pistacchi, mandorli, alberi da frutto, e piante dalle virtù benefiche, aromatiche come il mirto, l’alloro, il rosmarino, e con ogni varietà di fiori tra cui naturalmente tulipani delle forme e dei colori più diversi, dal bianco fino al nero del velluto, da quelli spampanati o tutti spettinati a quelli perfettamente chiusi, come contenessero al loro interno qualcosa di sorprendente. Ne contemplavo i quattro campi in cui era diviso, il rosa delicato e il porpora intenso, gli uccelli con la piccola cresta, l’elaborato incastro di motivi a punta per dare l’idea dell’acqua in movimento nei canali. E mi incantava la singolare soluzione, allo stesso tempo così antica e così infantile, con cui era stata resa la prospettiva verticale degli alberi che erano rappresentati di piatto, come fossero crollati simultaneamente a terra. Il tondo centrale tutto tempestato di minuscoli fiori mi sembrò volesse indicare l’essenza stessa del Paradiso. Era un tappeto che induceva una sensazione di serenità, se fosse entrato nella mia casa avrei passato lungo tempo a guardarlo, a cercare di cogliere la fantasia che lo aveva prodotto. Perché, al di là della comprensione di tutti i suoi aspetti, il tappeto può essere un campo di pura e mai esaurita contemplazione, spazio visivo di meditazione, oltre che tessuto mutevole di cui osservare le continue variazioni. Cambia infatti del tutto il suo aspetto spostandolo da un ambiente all’altro, si inonda di sole di giorno e i suoi colori si smorzano fino a far sparire il disegno, si addensano invece carichi di sfumature se steso all’ombra degli alberi nel giardino, come in Oriente si usa, e la loro intensità cambia di sera, così come più calda e morbida appare la superficie con la luce delle lampade accese. Perfino che ci si metta da un capo o dall’altro della sua lunghezza, le sue tinte si trasformano, e lo stesso tappeto potrà apparire verde lattescente come l’acqua di uno stagno oppure lilla, come i petali dell’iris.
Mi era toccato invece il tappeto persiano regalato. Rimase nella mia casa per vent’anni e provavo quasi pena per la sua impossibilità di inserirsi tra le mie cose.
Quando mi trasferii, fu portato da mia madre, dove ancora meno si adattava al pavimento di maiolica su cui fu posato. Lì c’erano altri vecchi kilim che venivano dal Nordafrica, di colori mediterranei, rosso vivo, viola, giallo, qua e là stinti o sbavati, combinati in losanghe, croci, zigzag, strisce multicolori. Messo tra quelli il tappeto persiano diventò come un vecchio signore un po’ triste e fuori moda in mezzo a un gruppo di allegre ragazze vocianti, ma stranamente non se ne riceveva un’impressione di stridore, era anzi come se avesse trovato una buona accoglienza, un suo posto accettabile. D’estate i tappeti venivano tutti arrotolati e sparivano, d’autunno comparivano di nuovo, i bambini ci si accampavano con i giochi, ci si rotolavano, lasciavano briciole di biscotti, macchie di latte, di cioccolata.
Arrivarono una volta ospiti nella casa di mia madre i musicisti tuareg con i quali lavoravo. Fu preparato riso con la salsa di carne, che mangiarono seduti in circolo per terra sul tappeto persiano intorno al grande piatto comune. Poi le donne si avvolsero nei veli e si stesero là dove stavano, avevano scelto proprio quel tappeto per dormire quella notte perché più spesso e morbido degli altri: aveva ritrovato la sua funzione.
Avrebbe potuto rimanere per anni nel grande soggiorno di mia madre il tappeto persiano, arrotolato d’estate, steso d’inverno. Ma ecco che qualche anno dopo entrò a far parte di una nuova storia.
Lavoravo con i tuareg Kel Antsar che appartengono alla regione di Timbuctù. Ricevetti un giorno una lettera che accompagnava un pacco di fogli contenenti delle ricette erboristiche. La lettera era di Ibrahim ag Youssouf, un tuareg appartenente a una frazione di religiosi dei Kel Essuf del Gourma, nel Mali. Il suo accampamento stava nel deserto del Nord, ma la vita lo aveva portato altrove. Aveva studiato negli Stati Uniti, vissuto in Europa, in Sudan, in Mauritania, come consulente delle Nazioni Unite. Sua moglie, Zakiyatou, che aveva invece studiato a Mosca, lavorava ora a Vienna dove le bambine prendevano lezioni di pianoforte. Ma il padre di Ibrahim, un religioso che aveva passato la vita studiando il Corano e approfondendo i commentari e i testi più importanti dell’Islam tanto da diventare un’autorità la cui fama arrivava lontano, dal deserto non si era mai mosso e quando ero andata a visitarlo lo avevo trovato che sedeva davanti alla tenda su un luminoso tappeto di colore arancione, con le bordure scarlatte. Era circondato da allievi e dai suoi figli, i fratelli di Ibrahim, rimasti pastori delle pecore e dei cammelli che pascolavano nei dintorni dell’accampamento.
Con la lettera, Ibrahim mi chiedeva di fare un libro che raccogliesse le ricette erboristiche che mi aveva mandato e che la vecchia e nota guaritrice Fadi oualett Faqqi di Timbuctù, madre di sua moglie Zakiyatou, aveva dettato affinché venissero pubblicate: sebbene le ricette tradizionalmente fossero trasmesse dalle guaritrici per via orale, visti i tempi e la situazione che i tuareg stavano attraversando, Fadi voleva affidarle alla scrittura perché potessero continuare ad essere trasmesse in futuro. Mi chiedeva di raggiungere Fadi a Nouakchott, dove era rifugiata. Era il 1992.
A Nouakchott lavoravo con Fadi sulle sue ricette e la cura tradizionale delle malattie. Come migliaia di tuareg era rifugiata in Mauritania dopo l’ultima ribellione nel Nord del Mali. Ribellioni che si ripetevano fin dal 1963 tra le popolazioni nomadi dell’Adagh a causa delle condizioni di vita, invivibili per il totale abbandono in cui uomini e animali erano stati da sempre tenuti dallo stato centrale. Condizioni già impossibili cui si aggiungevano con regolare cadenza siccità e carestie. Ed era noto che gli aiuti mandati dai paesi occidentali finivano a funzionari corrotti e non ai nomadi. La rivolta del 1963 era stata repressa con esecuzioni collettive pubbliche alle quali era d’obbligo assistere e applaudire, violenze sulle donne, saccheggi, massacri di animali fino a distruggere quello che era l’unico mezzo di sostentamento. Migliaia di tuareg erano allora emigrati verso la Libia, l’Algeria, il Niger. Il conflitto, sempre latente, era ripreso nel 1990, con la fuga dagli accampamenti, questa volta di circa duecentomila persone.
Fadi viveva ora con una parte della famiglia nella più povera periferia di Nouakchott, una periferia degradata e miserabile, meno infernale però di quella in cui vivevano i rifugiati neri dal Senegal, in buche scavate nel terreno e ripari fatti con pezzi di pneumatici, tra montagne di carbone. Erano disperse qua e là le persone della sua famiglia: c’era chi stava in Libia, chi nei campi di rifugiati di Bassikounou e Fassala, al confine tra Mauritania e Mali, chi in Marocco. Lei era qui con una figlia, Fatima. Lavorava la pelle per guadagnare qualcosa, non aveva più le piante che crescono nel deserto per poter esercitare il suo mestiere di guaritrice. Non usciva mai, per non vedere quanto la circondava in quella periferia in decomposizione. “La città è fetida”, diceva, “il deserto profuma”. Era sempre vissuta sotto una tenda su una duna da cui vedeva Timbuctù, dove voleva che stessero i suoi figli, per andare a scuola e studiare.
C’era una sorta di immobilità nella casa, la depressione, l’afflizione rendevano ogni gesto faticoso e quasi impossibile. Il futuro non esisteva più, esisteva solo un insopportabile presente e il passato che opprimeva per l’angoscia e per la nostalgia che si mescolavano in un costante soffrire. Le bambine, Shaima e Saada, venivano quando faceva buio nella stanza che mi era stata data, mi parlavano segretamente (“non dire che ti abbiamo detto”) di morti, di rapine, dell’uccisione della figlia e del figlio di Fadi, di pozzi avvelenati, di come i vecchi erano stati bastonati dai soldati. Continuamente parlavano di morte, del volto insanguinato della dolce Zeinabou quando era stata uccisa. Le frasi, bisbigliate, si sentivano appena. Perché gli adulti invece non parlavano, non una parola su quanto era successo. Fatima si affacciava ogni sera nella stanza, mi ricordava di tenere la luce accesa di notte per allontanare dal mio materasso steso per terra gli scarafaggi che correvano sul tappeto: “Solo vederli rende malati”, diceva.
Il conflitto venne apparentemente placato e un patto nel 1996, in cui a simbolo della pace furono arse le armi in un grande rogo, introdusse un periodo che sembrava di tranquillità. I tuareg tornavano negli accampamenti, nelle case. Ma molti non si fidavano più, rimasero nei campi di rifugiati.
Nei suoi viaggi Ibrahim ag Youssouf passava spesso anche da Roma.
Ibrahim, la cui fierezza aristocratica andava di pari passo con un fare protettivo e attento, era dotato di un gusto estetico raro, proprio della sua gente d’altronde. Amava gli oggetti come espressione fondamentale e preziosa della cultura e faceva lavorare artigiani scelti per recuperare le forme più pure della tradizione tuareg, quelle che si erano perdute. Pur essendo vissuto in diversi luoghi dell’Occidente, indossava esclusivamente la veste di ricca fiandra con la sciarpa di tessuto indaco che diventa turbante, e i sandali tradizionali fatti fare appositamente per lui da un pellaio del Niger. Sospeso al collo portava sempre il suo tarallabt, il portafoglio di cuoio policromo a decori traforati, reso prezioso dal tempo oltre a un antico pendente d’argento, rame, ferro bianco, finemente cesellato, custodia di scritture coraniche.
Una domenica mattina ci aggiravamo tra i banchi del grande mercato festivo alla ricerca di grani di corallo con cui il suo personale enad, l’artigiano che tra i tuareg lavora i metalli, il legno, l’argento, avrebbe dovuto confezionare per lui un rosario. Non riuscivamo a trovarne della misura e del colore giusti. Ci spostavamo da un banco all’altro dei venditori di perle e di pietre, esaminavamo a lungo in silenzio sul palmo della mano le piccole sfere… Scelta non facile: una sfumatura non esattamente come quella pensata, un lieve difetto, troppo lustre, troppo opache, non della dimensione voluta. Continuavamo determinati a cercarne. E infine eccole. Di una luminosità morbida e discreta, del perfetto rosso corallo, non troppo piccole, non grandi.
La giornata di giugno era limpida, e ora libera, come proseguirla? Ibrahim mi si rivolse: “Portami a conoscere tua madre”. Un importante gesto di rispetto. La famiglia è infatti per i tuareg un valore cui l’ospite deve considerazione. In futuro, ogni volta che si sarebbe parlato di lui mia madre avrebbe detto che mai aveva visto un uomo di così rara bellezza.
Entrammo nel soggiorno. A Ibrahim era subito piaciuta la nostra grande casa, dove ora mia madre viveva da sola, il giardino con i cani, gli piaceva quella vecchia signora dai capelli candidi che comunicava un misto di forza, di allegria, di discrezione. Ma ora la sua attenzione si era spostata sul tappeto persiano. “Il est vraiment très beau”, mi disse. Davvero bellissimo. Rimasi stupita, interdetta. Gli dissi di non essere mai riuscita ad affezionarmi a quel tappeto, che non lo avevo mai neppure apprezzato. E tua madre? mi chiese. Mia madre era in genere indifferente alle cose che la circondavano, non provava mai uno speciale attaccamento, e comunque non per quel tappeto. Le cose muoiono se non sono amate, disse. Gli chiesi se a lui piaceva davvero. “Il est vraiment très beau”, ripeté.
Esiste un uso tra i tuareg. Quando lo sguardo dell’ospite si sposta su qualcosa che possiedi, che sia l’anello che da sempre orna la tua mano, il tuo cammello, il cuscino di morbida pelle su cui da anni poggi la testa quando dormi, quella cosa diventa sua. Nulla può infatti appartenerti per sempre, gli oggetti devono viaggiare da una persona all’altra, spostarsi, sono materia di scambio, sono comunicazione.
Mi chinai, ripiegai il tappeto accuratamente. “È tuo”, gli dissi. Il tappeto persiano aveva finalmente trovato chi lo avrebbe amato.
Andavo e venivo dal Mali, il mio lavoro coi tuareg continuava. Una volta, andando di sera all’aeroporto passai a salutare Ibrahim. Un piccolo gruppo di artigiani, sotto il portico della casa, stava lavorando per lui. Erano i suoi inaden, i fabbri. Sul pavimento, un enorme piatto di legno scuro, evidentemente molto antico, il tarehut, piatto comune attorno a cui da generazioni si era mangiato il riso nella tenda della sua famiglia. Era tutto percorso da riparazioni per chiudere le fessure che nel tempo si erano aperte. I fabbri sapevano come rimarginarle, quasi a cucirle, con piccole piastre e punti di metallo, qui di tutti i tipi: di rame, d’argento, di metallo bianco, con piccolissimi chiodi battuti che le punteggiavano, disegni geometrici a decorarle e renderle preziose, e i punti di metallo formavano vere e proprie cuciture che disegnavano linee precise. Tutta una varietà di riparazioni, non una uguale all’altra, fatte nel tempo dai fabbri di famiglia. Il metallo con l’uso si era ammorbidito, riluceva appena, amalgamato con la superficie levigata del legno. Un oggetto che incuteva rispetto, la cui bellezza stava anche nella sua storia, che si percepiva senza vuoti, una storia continua: era nato nel Gourma e là era rimasto per generazioni.
Ma c’era qualcosa che prima di partire dovevo vedere. Un altro tarehut in lavorazione da anni. Il legno (non ricordo più il nome dell’albero del deserto che era stato usato) era stato tagliato nel tronco, poi scolpito in modo da dargli la forma di una grandissima scodella dai bordi svasati. Era stato sotto la sabbia per due anni, affinché perdesse l’umidità e assumesse il giusto colore. Un colore inatteso e incredibile, che faceva pensare al sole, o all’albicocca matura, a un pompelmo dalla buccia rosata, che mai avrei detto il legno naturale potesse avere. Lo stavano levigando, un lavoro molto lento, fatto di più e più passaggi. Sarebbe stato poi ancora sepolto nella sabbia fino a raggiungere la dovuta consistenza, fino ad alleggerirsi di tutta l’umidità. “È di una bellezza commovente”, dissi. “Una volta finito, ma ci vorrà qualche anno, sarà tuo”, rispose Ibrahim.
Chissà dov’era il mio tappeto, pensai, ma avevo fretta, l’aereo stava per partire, non entrai a vedere.
Era febbraio del 2010 quando andai a trovare Zakiyatou nella nuova casa, sulla collina di Kati, a Bamako, dove molti altri tuareg abitavano. Sotto il governo di Alpha Oumar Konaré, Zakiyatou era stata nominata ministro dell’Artigianato e del Turismo del Mali. Ibrahim era in Sudan. Arrivai in taxi sulla collina di Kati. Zakiyatou era scesa in città, sarebbe tornata dopo poco. Ero attesa, mi dissero i servitori. Discreti, con lunghe vesti bianche. Mi fecero entrare nella grande casa, un parallelepipedo orizzontale di pietra chiara con porte-finestre che si aprivano su uno spazio esterno di sabbia e di eucalyptus. Le porte, dentro, erano di un legno locale, pesanti porte scolpite, i pavimenti di marmo color latte, i muri color sabbia, decorati di stucchi leggeri, intagliati. Tutto comunicava calma, riposo, e il senso di vuoto del deserto.
Entrai nel soggiorno che era illuminato dalla luce smorzata del pomeriggio, due levrieri mi vennero incontro. Anche qui marmo del colore del latte, stucchi intagliati e, sul pavimento ecco il mio tappeto persiano, su cui stava accosciata in riposo la gazzella di casa.
Fui travolta dallo stupore, dall’emozione perché il tappeto era semplicemente magnifico. Di colpo, come mi apparvero morbidi i suoi colori, affascinanti e sorprendenti gli intrecci di fiori e di linee curve, e come risaltava il raffinato gusto nell’associare quel porpora a quegli azzurri e a quei blu profondi! Quale sensuale fantasia nell’elaborare a quel modo il tema del giardino fiorito, dissolvendone le forme realistiche in quelle evocazioni simili a stemmi fatti di fili di lana passati nell’ordito, a uno a uno, a uno a uno. Eppure era proprio il mio tappeto, lo stesso che era rimasto umiliato nella mia casa, e che qui invece era unico ornamento di uno spazio tutto accuratamente pensato e realizzato, dove nulla era casuale, dove tutto appariva essere molto amato.
Mohammed Alì, il figlio più piccolo di Ibrahim e Zakiyatou, di circa dodici anni, giocava in un angolo con la play station. Disinvolto, parlava un perfetto francese parigino, dovuto alla scuola che frequentava, non il francese maliano. “Accomodati pure”, mi invitò. Ordinò ai servi di portarmi acqua gelata, poi continuò, “Io sono Mohammed Alì, l’ultimo figlio di Ibrahim e Zakiyatou. Segno del Cancro. Il più intelligente, il più simpatico, il più socievole dei segni”. La sua conversazione era mondana, smodatamente narcisista, intelligente. Impagabile. Mi divertivo enormemente: questo piccolo principe sarebbe diventato un grande personaggio. Si avvicinò: “Prova a sollevarmi!”. Lo sollevai prendendolo sotto le ascelle. Esile e forte, i lineamenti bellissimi. Un perfetto tuareg.
Due anni dopo, il 17 febbraio del 2012, la rivista Nazione indiana pubblicava un mio articolo nel quale scrivevo tra l’altro: “Si calcola che a partire dal 2 febbraio più di diecimila tuareg del Mali, e appartenenti alla cosiddetta popolazione bianca, ossia mauri e arabi, abbiano precipitosamente abbandonato accampamenti e abitazioni nel Nord e altrove nel paese, compresa la capitale Bamako, per cercare asilo negli stati vicini, Mauritania, Algeria, Niger, Burkina Faso e Senegal in conseguenza degli scontri iniziati il 17 gennaio tra esercito regolare e ribelli tuareg. […] Un patto firmato col governo nel 1996 che salvaguardava l’unità dello Stato maliano pur consacrando uno statuto particolare al Nord non ha di fatto posto fine alla ribellione che ha continuato a ripresentarsi periodicamente non essendo mai stati sanati i problemi da cui era nata. Oggi, dopo una tregua di tre anni dall’ultimo scontro, quello di Abeilbara nel 2007, il conflitto si è riacceso e questa volta con grande violenza. Ma ci si trova adesso in una situazione nuova, che è l’attacco di un movimento che si propone di liberare l’Azawad, ossia tutta la regione del Nord “dalla presenza dello stato maliano” per assegnarlo ai tuareg. È divampata la guerra. […]Se nel Nord la fuga è determinata dalla impossibilità di rimanere nelle zone di conflitto, a Sud si fugge quella che si configura come una nuova persecuzione: come avvenuto in passato, cittadini maliani attaccano altri cittadini maliani che agli scontri sono del tutto esterni sulla base della loro appartenenza etnica, assimilandoli ai ribelli e rendendoli corresponsabili di quanto accade. E, come in passato, sta avendo luogo un drammatico esodo di massa. A Bamako un’esplosione di violenza ha portato alla completa distruzione di abitazioni di tuareg sulla collina di Kati. Una delle abitazioni distrutte e incendiate è quella di Zakiyatou oualett Halatine, ex ministro dell’Artigianato e del Turismo”.
E Zakiyatou, Ibrahim, Mohammed Alì, gli altri figli, dove erano?
Riuscii a raggiungerli dopo molto tempo al telefono, erano in Mauritania, a Nouakchott. Avevano mandato i figli negli Stati Uniti. Erano riusciti a fuggire, la sorte aveva voluto che al momento dell’attacco non fossero nella casa che era stata saccheggiata, poi completamente distrutta dal fuoco.
In Mali non avrebbero mai più messo piede, mi disse Ibrahim, mai più avrebbero ancora subito l’umiliazione della fuga. Esuli da allora in poi.
E i servitori di casa, i levrieri, la gazzella? Non ebbi il coraggio di chiedere.
E il tappeto? il mio tappeto persiano?
Chissà in quali ruscelli di acqua limpida la sua lana era stata lavata, chissà dove erano state raccolte la Rubia tinctorium, robbia o garanza, dalle infiorescenze a corimbo giallo chiaro, per tingerla, le foglie di Indigofera tinctoria, dai fiori a grappolo di un viola chiaro, simili al glicine. Chissà che vesti indossavano le donne e le bambine, quali anelli ornavano le mani che lo avevano tessuto. Chissà come aveva viaggiato per arrivare fino a me. E chissà perché era arrivato proprio a me, povero tappeto. Partito dalla Persia era finito così distante, e ora chissà dov’era, chissà se qualcuno di quelli che avevano saccheggiato e poi dato fuoco alla casa di Ibrahim e Zakiyatou se lo era portato via e stava ora in un’altra casa, tra altra gente. O se invece era bruciato nell’incendio della casa. Chissà quale era stato il suo destino. Aveva fatto parte tanto a lungo della mia vita, aveva dato valore a un’amicizia, e finalmente aveva trovato il suo giusto posto. Provavo una grande pena, non l’avevo mai considerato se non con fastidio, fino a quando mi si era rivelato nella sua antica bellezza, in una casa di persone che lo avevano accolto e apprezzato.
Perché i tuareg amano i tappeti. Ne avevo sempre visti negli accampamenti: kilim tessuti nel Maghreb, usati come coltri, tappeti annodati che arrivavano dal Medio Oriente su cui passavano il giorno stese tra cuscini le donne, tappeti come quello color arancio e scarlatto su cui sedeva, davanti alla sua tenda, il padre di Ibrahim. Ma questo avveniva un tempo, quando nel deserto c’erano ancora i nomadi, e c’erano ancora le tende.