Viaggiare

di in: Paesologia

Il cortile del Centro "La lucertola" di Ravenna

“Ma i veri viaggiatori partono per partire:

cuori leggeri, come palloni in alto vanno,

il loro corso mai vorrebbero smarrire,

dicono sempre ‘andiamo!’ ed il perché non sanno”.

Charles Baudelaire, Il viaggio, tradotto da Antonio Prete

 

Un viaggio può essere motivato da un desiderio di evasione. Per tutto l’anno siamo costretti a risiedere nel luogo in cui lavoriamo e quindi appare del tutto naturale l’esigenza di partire appena se ne ha l’occasione. Il desiderio di evasione è indotto da un’insoddisfazione della vita di tutti i giorni, una vita che ha in sé un elemento di alienazione: noi non facciamo mai quello che davvero desidereremmo fare, ma quello che siamo costretti a fare. Così anche il luogo dove risiediamo non ci appartiene interamente, se non altro perché il nostro lavoro ci costringe ad essere sedentari. Di qui il desiderio di andare via appena si può, nomadi, verso un tempo ed uno spazio sottratti ad ogni costrizione. Ma bisogna stare molto attenti: il turista è soggetto a pene peggiori. Per es., tornato da Londra, un amico o un familiare potrebbe rimproverarlo in questo modo: “Ma come, sei stato a Londra e non hai visto Buckingham Palace?”.

Durante un viaggio, essere presi dalla frenesia di vedere tutto senza trascurare nulla può diventare fonte di ansia e di qualche malumore, perché è naturale che non si possa vedere tutto. Pertanto, sarebbe meglio smetterla con queste pretese e vivere, nel luogo dove siamo giunti, partecipando di sguincio della vita degli altri, quella di tutti i giorni. Solo così si riesce ad apprezzare fino in fondo il luogo che ci capita di visitare. Ed è importante che ci rimanga il desiderio di ritornare, il che può accadere solo se non abbiamo esaurito la conoscenza con la nostra smania di vedere (consumare) tutto.

Il desiderio di ritornare in un luogo, nel quale abbiamo soggiornato piacevolmente, è connesso col desiderio di procrastinare la morte, esorcizzandola con la promessa, che sì, sappiamo di essere mortali e che dunque il nostro tempo è limitato, ma intanto chiediamo che ci sia consentito di ritornare nel luogo che non abbiamo visitato interamente. Facciamo una finta promessa alla morte. Le diciamo:facci rivedere quel posto un’altra volta e poi un’altra ancora (per quanto ancora?) e poi noi saremo tuoi. Non per altro a me pare che sia sempre più desiderabile tornare in un posto piuttosto che andarci per la prima volta.

Quante foto scattano i turisti! Dalla memoria delle loro macchine fotografiche salveranno le foto migliori. Le mostreranno agli amici o le terranno per sé come ricordo di un viaggio indimenticabile. Lo scatto fotografico ha in sé qualcosa di essenziale, esso è l’istante (da cui deriva il termine fotografico “istantanea”) sottratto al continuum del tempo, fatto di milioni di istanti (scatti), alla fine dei quali giunge inevitabilmente la morte. Ma l’istante è ciò che conta: chi domina l’istante vive in eterno. Con uno scatto, infatti, non si “immortala” qualcosa o qualcuno? Milioni di scatti corrispondono, dunque, a milioni di istanti sottratti alla morte, che di certo non potrà venire fino a quando scatteremo innumerevoli foto.

Viaggiare non per conoscere, ma per essere altrove, il che significa sentire altri rumori, altre voci, vedere una luce diversa in un clima diverso, inserirsi in un flusso vitale inconsueto, tra gente che vive in uno spazio che solitamente non attraversi, dove hai l’illusione che tutto possa ancora avvenire. Chi è altrove tende i suoi sensi ed ha fiducia che la vita gli si farà incontro:potrebbe non uscire dalla sua camera d’albergo e starsene seduto sul letto, con la finestra aperta, a guardare e sentire quel che avviene per strada. Essere altrove significa vivere questa piacevole illusione, destinata a tramontare appena tornati a casa. La conoscenza di posti nuovi è una conseguenza, neanche molto importante.

Quando cominciano a tornare in mente i pensieri consueti e ci diciamo: ”Al mio ritorno a casa farò questo e quest’altro”, vuol dire che si è nella fase finale del viaggio. In effetti, la sua efficacia si misura dal grado di distacco dalla solita vita. Entriamo in un ritmo vitale nuovo, ci dimentichiamo perfino del nostro ruolo sociale. Siamo come un terreno che va lasciato a riposo e concimato periodicamente perché poi possa dare dei frutti. Dimenticare la propria vita ci ridona la capacità e la voglia di ricominciare. Ecco, mi ritornano in mente i pensieri su cosa dovrò fare una volta a casa. Ebbene, questo vuol dire che bisogna prendere la via del ritorno.

C’è poi il momento che precede la partenza, nel quale ci si dà da fare per non dimenticare nulla in albergo; quando la valigia è pronta e si è costretti ad attendere un compagno di viaggio ritardatario, si rimane come sospesi, senza nessun pensiero che ci tenga legati al luogo in cui siamo. Siamo qui, in questo momento, ma stiamo andando via.

Che cosa rimane di un viaggio? Ho parlato con dei viaggiatori e mi hanno detto che alla fine del viaggio, bisogna lasciar decantare dolcemente le impressioni riportate. Un viaggio è una sorta di concentrato di esperienze, di cui non si può fare un bilancio al ritorno. Pertanto, quel che s’imprime nel filo del tempo, più o meno profondamente, più o meno coscientemente, e che aggiunge alle altre esperienze il suo tocco particolare, per quanto leggero possa essere, è quello l’essenziale.