Sono un accanito ascoltatore di radiocronache calcistiche. Niente a che vedere con la visione e le telecronache. Ascoltare il calcio alla radio è secondo me come la cecità per il veggente, al di là del contenuto prettamente tecnico è passibile di visioni profonde. Del resto i saggi dicono che con la vista si può diventare sapienti, con l’orecchio saggi, appunto. E poi i meri e tanto celebrati fatti arrivano in contemporanea attraverso le onde radio, in un grave ritardo di dieci secondi circa (l’ho calcolato, tra otto e dieci) in televisione, come può constatare chiunque ascolti la radio durante una partita alla tv pure se non è seguace di Enrico Ghezzi. E se dieci secondi nella vita vi sembrano pochi, durante una partita possono avvitarsi nell’imponderabile.
Ho molta ammirazione per i radiocronisti, almeno quelli calcistici, perfino quando non sono in forma, tossiscono di continuo o ti raccontano una partita parecchio diversa da quella che si sta svolgendo, influenzati magari da un Saturno contrario, da un non perfetto equilibrio di batteri nell’intestino o da un litigio con la moglie per futili motivi. Provo anche un bel po’ d’invidia, semmai rinascessi ho preso un appunto da dire a chi mi chiederà che voglio fare da grande, senza dubbi stavolta: radiocronista calcistico.
Non è questo però che ha attirato la mia attenzione poco fa, durante la radiocronaca della partita della squadra per cui faccio un tifo scriteriato da 59 anni suonati e che non c’è bisogno che riveli qui. Piuttosto, mentre il gioco ristagnava a centrocampo, mi è venuto da pensare che per quanto riguarda il radiocronista e alcuni suoi colleghi, io mentre li ascolto certo ricompongo in qualche modo le azioni che mi descrivono, ma ogni tanto e per caso mi capita anche di immaginare come sono fatti loro, i parlatori intendo. E negli anni ho constatato come e quanto l’immaginazione risulti ogni volta fallimentare in maniera addirittura eclatante, lui che sta parlando ora per esempio io ascoltandone la voce me lo immaginavo magro, un po’ pallido ed emaciato, biondo magari con un ciuffo alla Alan Ladd, invece poi l’ho visto alla televisione ed è grassoccio, naso a patata e capelli folti e ricci come Harpo Marx. Allora, visto che la partita ristagnava a centrocampo sono stato preso dallo spirito indagatore e ho chiesto a mia moglie che leggeva nell’altra stanza per non esser disturbata dalla radio, le ho chiesto come se lo immaginava lei il radiocronista e ne è venuto fuori uno tutto nuovo, una specie di Sean Connery se ho capito bene e per farla breve. Mi è successo tante volte di farmi un’idea sbagliata in base alla voce di qualcuno, è uno di quegli enigmi con poco senso e poche conclusioni per cui vale la pena perdere un po’ di tempo.
Perché quello su cui mi premeva appuntare l’attenzione è questo patente, fantasmagorico fallimento dell’immaginazione a partire da una voce, pure se non si tratta di voci particolari come può essere la mia, rude e intensa lo dico senza modestia (la coltivo diuturnamente con le Nazionali senza filtro), una voce che quando una qualche donna sconosciuta per esempio la sente per telefono le viene l’acquolina in bocca, poi se capita che mi incontra appena mi vede ha un moto di ribrezzo per la discrepanza. È noto il carattere tribale, profondo e allo stesso tempo isolante della radio. L’occhio è aperto, neutrale e associativo, diceva McLuhan, vale a dire uno dei profeti meno considerati o più evitati della storia dell’umanità, l’orecchio invece è intollerante, chiuso ed esclusivo. L’orecchio tende a crearsi un mondo a sé, a isolarsi, ed è quello che a sentir bene si crea ad ogni telefonata ad esempio, con la difficoltà a vedere, a immaginare chi è al di là e la tendenza invece a completare la comunicazione facendo scarabocchi da qualche parte (non c’entra quasi niente, ma se ci fosse qualche adulto in giro lo inviterei ad accorgersi prima, e poi a fare la somma di tutti i momenti di profondo isolamento e solitudine che prova e accumula ogni volta che telefona, diecine e forse centinaia di volte al giorno oramai che ne abbiamo la possibilità, e a vedere se per caso non coincide con la dose di depressione che sente sulle spalle… E fortuna che adulti non ce ne sono o quasi, altrimenti resterebbero delusi rispetto al vaneggiamento che hanno di magnifica connessione e progressiva con tutto il mondo).
Insomma, in questa indagine che va avanti più che altro a naso che ad orecchio, sembra proprio che la voce non sia identificativa in un essere umano, neanche un po’, e abbia un carattere suo proprio, diciamo eufemisticamente indipendente, almeno quando, come avviene in assenza di visione possiamo astrarci e non considerarla parte integrante di quella tale persona, di quel tipo umano. Si può avere l’impressione che la voce sia qualcosa di impersonale e indipendente appunto dall’individuo, ma è un discorso che non va a parare da nessuna parte perché il nucleo del problema sta invece nel mondo immaginativo di chi orecchia, si chiude ed elabora con i suoi parametri derivanti da chissà quale poco indagabile background della sua storia personale. A latere, questo vuol dire pure un’ovvietà, e cioè che ognuno ascoltando una partita ad esempio vede la sua e, altrettanto ovviamente, che in una società in cui la vista o la visione viene ad assumere un carattere sempre più esclusivo e impositivo la lettura della partita stessa va verso un’uniformità più o meno accertata, e la facoltà, lo sforzo di completare l’informazione con le proprie risorse va a farsi benedire.
È un fatto che noi diamo la patente di reale a quello che vediamo, e ci mancherebbe, mentre quello che ascoltiamo lo dobbiamo ‘vedere’ immaginandolo, sbagliando quasi per statuto, nel caso dell’identificazione della voce con un tipo umano. Tale carattere impersonale della voce è stato sfruttato a lungo dalla letteratura, fin quando la psicologia dell’epica prevedeva che il pensiero nascesse dall’esterno, dei o demoni o natura che fosse, ma anche in seguito quando l’ascolto avveniva nel silenzio della pagina scritta, attraverso gli occhi quindi, ma si continuava a dire che i libri che contavano erano quelli che possedevano una voce e ti parlavano come dietro l’orecchio, e gli scrittori erano valutati per la voce che avevano, nello stesso tempo esclusiva e impersonale, tanto da dare l’impressione leggendo il libro di incontrare una mente molto simile. Questo fino al medioevo, cioè a qualche settimana fa, oggi i libri che hanno una voce sono banditi. Se vogliamo andare ancora avanti per perdere tempo e fare confusione, potremmo dire che ci risulta estremamente difficile immaginarci com’era fatto un Esiodo mettiamo mentre leggiamo Erga kaì emerai, ma siccome mi sono messo a scrivere senza aver ben chiaro il problema e se c’è davvero un problema io confesso che ho provato leggendolo in greco a voce alta, e devo dire che me lo immagino molto diverso dalle erme in giro, io me lo immagino gracile, sproporzionato, tronco piccolo ma forzuto e la testa invece grande, la barba è forse un’imposizione culturale, non dico un Quasimodo di Notre-Dame ma quasi in quel modo. Tanto non mi costa niente immaginarmelo così e voglio vedere chi mi contraddice.
Resta il fatto dello scollamento. Questa voce è mia? Mi appartiene? Di sicuro è un fatto determinatissimo, glottide ed epiglottide formati in certo modo per lascito cromosomico, poi dovrebbero esserci i fattori psicologici tipo quello che credo di essere, poi le Nazionali senza filtro.
Come si vede sto arrampicandomi sugli specchi come si dice, senza dire niente di interessante o arrivare a conclusioni un minimo soddisfacenti, come scusante ho solo che la partita ristagna a centrocampo.