Qui dovrei spiegare le mie idee sulla vita in generale, o in particolare, ma insomma su come la vedo io secondo la mia esperienza. Secondo la mia esperienza io direi che la vita è una cosa che non si riesce a capire a cosa assomigli.
Negli ultimi tempi, però, pensando a questo, ho la testa che non mi funziona bene e non riesco più a spiegare niente. Racconterò allora una storia per smettere di pensare, lasciando agli altri il compito di spiegare quello che vogliono, se vogliono.
So di un giovanotto capitato a fare il supplente in una scuola media sulle sponde del Po, che appena arrivato ha fatto conoscenza con un vecchio muratore. Costui gli ha parlato d’un vecchio narratore orale che abitava da quelle parti, capace di raccontare storie d’ogni genere, comprese favole, drammi, filastrocche ed anche barzellette.
In un bar del paese un giorno il giovane professore ha avuto modo di conoscere quel vecchio narratore, che era lì assieme ad altri personaggi, tra cui il muratore di sua conoscenza. Invitato a bere con loro, credo si sia messo a fare troppe domande sulle condizioni di vita in quelle campagne. Ad un certo punto, invece di rispondergli, il vecchio narratore s’è messo a raccontare una storia.
Ha detto che una volta era andato a pescare sul Po, e mentre era lì aveva visto arrivare una bombetta portata dalla corrente. Stava per chinarsi a raccoglierla, quando s’era accorto che sotto la bombetta spuntava una testa.
Questa testa apparteneva ad un signore in bicicletta, che pedalava nell’acqua e stava emergendo per chiedergli: “Scusi, vado bene per San Benedetto?”.
Il vecchio narratore gli aveva risposto: “Si, ma è un po’ lontano”. Il signore in bicicletta aveva commentato: “Oh, be’, tanto, sono in bicicletta”. E s’era di nuovo immerso nel fiume e aveva proseguito.
Terminato il racconto nessuno dei presenti ha riso, tranne il giovane professore. Il vecchio narratore allora gli ha chiesto: “Scusi, lei, perché ride?”. Il giovanotto ha spiegato che rideva perché quella storia l’aveva fatto ridere.
Al che il vecchio narratore, aggrottando le sopracciglia, chiede: “Crede che io racconti delle fandonie?”. L’altro, poveretto, non sa cosa rispondere; farfuglia che no, che sì, che non sa.
Allora il vecchio narratore si guarda attorno, e con aria seccata dichiara che a lui non piace mica che gli vengano a ridere in faccia. Il giovanotto cerca di spiegare che lui aveva riso della storia, non del narratore, e dunque non gli aveva riso in faccia.
Tutti nel bar lo guardano in silenzio, con la faccia seria, e non dicono niente. Invece il vecchio narratore adesso si volta verso di lui per dirgli: “Guardi: siccome quella storia l’ho raccontata io, lei viene qua a ridermi in faccia, come se io fossi un pagliaccio. Non è giusto, sa?”.
Il giovane professore cercava appoggio negli altri, guardandoli, e allora il vecchio muratore l’ha preso per un braccio e l’ha tratto in disparte. Gli ha detto che il vecchio narratore s’era offeso sul serio, e l’unica soluzione era di chiedergli scusa. Così il giovanotto, non sapendo proprio cosa fare, ha chiesto scusa a tutti e se n’è andato dal bar.
Per qualche giorno è rimasto stupefatto di questa vicenda, che non sapeva come interpretare. Finalmente s’è fatto coraggio ed è andato a parlarne col vecchio muratore, per avere qualche delucidazione.
Il muratore gli ha spiegato perché quel vecchio narratore s’era offeso. Gli ha detto che s’era offeso, perché lui proveniva da un paese dove non bisogna mai ridere, quando ti raccontano qualcosa. Anche questo ha stupito molto il giovane professore, che ha chiesto: “Anche se ti raccontano una storia da ridere, non si può ridere?”. E il muratore ha detto che no, in quel paese erano fatti così, e consideravano la risata un affronto: e dunque se sentivano una storia da ridere, si trattenevano dal ridere, perché ridere in faccia a qualcuno è come dargli del pagliaccio.
Il giovane professore, pensando a come potesse essere un paese di gente così, s’è messo a ridere. E il muratore gli ha chiesto: “Scusi, perché ride?”. Il giovanotto spiega che quella storia l’ha fatto ridere, e il muratore chiede: “Crede che io le racconti delle fandonie?”.
A questo punto credo che il giovanotto abbia avuto un’intuizione, e abbia creduto di capire che anche il muratore proveniva da quello stesso paese dove non bisogna mai ridere in faccia agli altri. Così, per non ritrovarsi in una situazione imbarazzante come quella del bar, ha fatto subito la faccia seria. Soltanto, a titolo di curiosità, ha chiesto come si chiamasse quel paese: e il muratore glielo ha detto.
Di questa vicenda ne ha parlato poi con molti quando è tornato a Milano, e la storia è stata variamente interpretata secondo le diverse idee degli interlocutori, ognuno dei quali la spiegava in modo diverso. A quanto ne so, qualcuno ha persino progettato una spedizione per andare ad esplorare quel paesino, e vedere se davvero la gente si trattiene sempre dal ridere.
Qualcuno diceva che era tutto uno scherzo, qualcun altro che poteva essere una storia vera, perché in tutti i paesi ci sono delle stranezze. Comunque, se il paesino esisteva doveva essere molto piccolo perché nessuno l’ha trovato sulla carta geografica. Il nome declinato dal muratore, cioè Dotnevoia, in dialetto parmense credo voglia dire: “Dove pare a te”.
Io sottoscritto ho ascoltato questo racconto dalla viva voce di un amico che si chiama Chicco Bertè. Eravamo in un bar, c’erano altri che ascoltavano, e nessuno ha riso tranne me. Gli altri sono rimasti seri, pieni di riserbo, ed uno di loro mi ha chiesto aggrottando le sopracciglia: “Scusi, perché ride?”.
Non capisco proprio. Del resto l’ho già detto che in questo periodo la testa non mi funziona bene, e non riesco a spiegare proprio niente.
[da Il Buon Paesano, Angri, giugno-luglio 1989]
Riso e non senso per imparare a far finta di essere se stessi
di Enrico De Vivo
Ho conosciuto Celati nei primissimi anni Ottanta, a Bologna, dove non frequentavo l’Università, ma ero andato un giorno apposta a portargli una rivistina che facevamo io e un mio amico in un’altra città universitaria vicina. Fu un incontro fugace, Celati mi lasciò il suo indirizzo invitandomi a scrivergli quando volessi.
Tornato al mio paese, dopo la laurea, avevo ancora questo vizio di fare riviste con gli amici. Ero giovane “emigrante” di ritorno e dunque esibivo una certa sicumera nel giudicare i miei concittadini come arretrati rispetto alle novità che avevo visto, letto, capito viaggiando per cinque anni per l’Italia. Volevo emancipare anche loro, i miei concittadini zotici, e mi piaceva farlo con una certa impostazione ironica, che tradiva aspirazioni da clown più che da missionario emancipatore nello smorto loco natìo.
Una delle rivistine che mi inventai si chiamava Il Buon Paesano, e si proponeva, alla lettera, “una rifondazione etico-culturale dell’agro nocerino-sarnese”. Dentro c’erano molti articoli satirici, ma anche cose serie. Con mia grande sorpresa e gioia, Gianni Celati mi inviò il racconto qui riprodotto, che all’epoca dovettero leggere all’incirca 25 leggendari miei concittadini. In quel contesto, e a quell’epoca, ma soprattutto per me, Dove pare a te ebbe un significato fortissimo, sul quale non mi soffermo perché si tratta di una faccenda talmente complicata che ancora oggi non sono riuscito a penetrarla con sicurezza. Dico soltanto che sono ormai quasi trent’anni che leggo e rileggo questo racconto, e ogni volta ci trovo sempre qualcosa che non capisco ovvero qualcosa di nuovo che mi spiazza e stupisce. Per contrastare la perplessità, mi capita spesso di leggerlo ad altri, in particolare ai miei studenti liceali. L’altro giorno, dopo che uno di loro, Gianpaolo Palo (che ringrazio qui) l’aveva ricopiato per la pubblicazione su Zibaldoni, l’ho letto ai ragazzi per l’ennesima volta, e tra i più diffusi commenti, ho raccolto questo: “Fa ridere, ma non ha senso”. In fondo, era esattamente quello che avevo sempre pensato anch’io, ma come spesso accade, avevo qualche difficoltà ad ammettere a me stesso una verità così apparentemente riduttiva per un’opera letteraria, cioè ad assumere il non senso e il riso come le caratteristiche fondamentali di una storia.
Allora mi è venuta in mente un’intervista proprio degli anni Ottanta, se non sbaglio, in cui Celati dichiarava che nel periodo in cui aveva scritto Narratori delle pianure (e, probabilmente, anche Dove pare a te) aveva per la testa il titolo di un album dei Talking Heads, Stop making sense. Ho fatto sentire ai ragazzi qualche brano di quell’album e poi ho letto loro quello che Celati ha detto qualche anno fa in occasione della pubblicazione del suo ultimo lavoro, la traduzione dell’Ulisse di Joyce: “Non c’è nulla di serio in Joyce. Neanche mezza frase. Tutto un gioco, uno scherzo, come in Rabelais, come la lingua maccheronica, come Teofilo Folengo”. Come vedete – ho commentato – i conti tornano.
Ma c’è di più, ho detto ancora ai ragazzi. Io ho sempre letto i testi di Celati per motivi preminentemente extraletterari, ricercandovi altro dalla “bella e buona letteratura”. È per questo che l’amore per il non senso e la ricerca del riso, come l’avversione per la serietà istituzionale (perché c’è anche una “serietà leggera”, come suggerisce il narratore di Lunario del paradiso), sono ai miei occhi non solo aspetti caratterizzanti della sua poetica, ma anche tratti salienti del suo magistero di vita, se così posso dire. Quando mi inviò questo racconto, infatti, lui stava parlando anche a un giovane supponente che credeva di essere un “buon paesano”, portatore di una responsabilità civile, morale e intellettuale – uno al centro del mondo, insomma –, e invece era soltanto l’abitante di un posto qualsiasi e sperduto dove si sarebbe sentito sempre inadeguato e un po’ stupido. E dove sarebbe stato presto incapace perfino di orientarsi, se non avesse imparato ad amare “ciò che ci lega ai clown, ai guaritori e ai dottori dell’amore” e a praticare fino in fondo la suprema arte del far finta di essere se stessi.
complimentissimi!!!
tanti tanti auguri!!!
I migliori auguri a Celati e a Zibaldoni che da sempre ospita scritture di valore assoluto.