“Edith lo ama. Ma ci ritorneremo su”. È il sorprendente inizio del romanzo “Il brigante” di Robert Walser (1878-1956), che inspiegabilmente non è ancora stato tradotto in Italia (ma forse Adelphi, che ha pubblicato molte sue opere, colmerà presto la lacuna). Siccome non so il tedesco, mi sono procurato “Il brigante”, o meglio “Der rauber”, in francese (“Le brigand”, Folio) ed ora credo di poter garantire che si tratta di uno dei romanzi nello stesso tempo meno conosciuti e più innovativi del Novecento. Walser, che qualcuno ha definito “il più solitario tra i poeti solitari”, vi esercita gli straordinari poteri dello scrittore con la massima libertà e disinvoltura, intrattenendo ad esempio un dialogo diretto ed esplicito con i suoi stessi personaggi e operando continue digressioni narrative, senza poi preoccuparsi di tornare dov’era partito. In sintesi, il libro è l’avventurosa storia di un simpatico e anonimo antieroe, detto appunto “il brigante”, il quale altri non è se non l’alter-ego dello stesso Walser, che a un certo punto invita addirittura il protagonista a partecipare con lui alla stesura del romanzo.
Tra l’autore e il suo personaggio esiste, dunque, una dichiarata complicità. Più d’una volta il primo è costretto a intervenire e difendere il secondo dagli attacchi della società in cui vive. A parte qualche doverosa lavata di capo, lo protegge, gli strizza l’occhio, lo perdona di certe sue scostumatezze, solidarizza con lui nella buona e nella cattiva sorte. Più che padre e figlio, i due sembrano fratelli, l’uno maggiore (Walser), l’altro minore (il brigante). Il più grande, ad esempio, consiglia al più piccolo di provare a elevarsi da un punto di vista sociale e, in particolare, lo mette in guardia da un comportamento troppo infantile. Alla fine, però, lo abbandona, perché il ragazzaccio si ostina a fare di testa sua. “Abbasso il brigante”, scrive Walser, e chiede ad alta voce che il giovane sia posto sotto sorveglianza.
Lo scrittore svizzero non si limita a intrattenere un rapporto diretto con il protagonista, ma dialoga anche con altri personaggi di non minor peso, Edith innanzitutto, la donna amata dal brigante, che – come abbiamo visto – viene citata proprio all’inizio e abbandonata nella frase immediatamente successiva. È a lei che, verso la metà del romanzo, Walser tiene un lungo discorso contenente, tra le altre, punzecchiature come queste: “Il brigante ci ha assicurato di averti testimoniato ogni sorta di attenzione”. Oppure: “Le preoccupazioni non sono mai state il tuo forte. Il brigante ci ha detto che da questo punto di vista lasciavi piuttosto a desiderare”. Come potrebbe la poveretta liberarsi dalla morsa in cui si trova se non sparando un colpo di pistola contro quel prepotente dal viso di ragazzino? “Tu non puoi niente contro la direzione delle cose, che è nelle nostre mani”, l’aveva peraltro avvertita poco prima l’autore del romanzo. Edith non piace all’autore-narratore: “Non deve attendersi altro che freddezza da me”, dice apertamente a un certo punto. Per poi domandarle in seguito: “Non credi di essere stata un po’ vile nei confronti del brigante?”. Il romanzo procede così, dentro a un continuo gioco di specchi e di inseguimenti negli specchi, che raggiunge il suo punto limite nel momento in cui il brigante fa sapere al nuovo fidanzato di Edith che sta aiutando uno scrittore a scrivere un romanzo nel quale Edith è la protagonista.
Nel corso del suo vagabondare il brigante s’innamora, oltre che di Edith, di altre innumerevoli fanciulle. La prima cosa che guarda sono gli occhi. Edith li ha color dell’oro, Wanda come due biglie nere, l’affittacamere Selma azzurri, una servetta tra le tante di colore verde. Poi ci sono una brasiliana, una cinese, le sorelle Stalder, una ragazza che “sembra uscita da un quadro del doganiere Rousseau”, un’altra che non ha problemi a dirgli: “Non sapete dunque voi stesso che cosa volete dalla vita e perché siete qui? In una parola, e in definitiva, siete un essere umano?”. È la stessa che definisce il suo vizio di servire “semplicemente un modo di fare lo stupido in modo intelligente e l’intelligente in modo stupido”.
Neppure il lettore è escluso dal gioco del seguire e dell’inseguire. Quando meno uno se l’aspetta, l’autore interrompe improvvisamente il racconto e dice: “Ma di questo parleremo più tardi”. Oppure: “Ci ritorneremo”. Senza affatto preoccuparsi, in seguito, di riprendere il filo del discorso. Qualche volta, poi, senza preavviso, l’autore annuncia: ora parleremo di costui o di costei. A quel punto il lettore, che si stava appassionando alla storia precedente, non può che seguirlo per il nuovo sentiero. A proposito di questa tecnica narrativa, Peter Utz – professore di letteratura tedesca a Losanna e studioso di Walser – ha scritto che “Il brigante” ha una struttura labirintica: “L’obiettivo del romanzo, il centro del labirinto – dice Utz – sembra essere il romanzo stesso, ma siccome lo spazio narrativo curva su di sé, questo obiettivo non può mai essere raggiunto”.
Leggere “Il brigante” è come stare accanto a Robert Walser mentre scrive. Lo ascolti, senti che parla a te, ti accorgi che le parole viaggiano da una solitudine a un’altra solitudine. È piacevole la sua compagnia. “Non è necessario rivelare tutto, chiarire ogni cosa, altrimenti si perderebbe il piacere di riflettere”, spiega verso la fine del libro.
D’altronde, non è uno che si preoccupa dei buchi narrativi. Quello che veramente conta, per lui, è il lavoro dello scrittore, il suo rapporto con quello che scrive. Non importa che la trama del romanzo, se mai ce ne fosse una, non abbia né capo né coda, anzi è piuttosto simpatico che, così come al lettore, il filo sfugga continuamente di mano anche all’autore. Ad ogni modo, se proprio vogliamo, “Il brigante” è la storia di una lunga passeggiata attraverso le storie d’amore realmente immaginate da Robert e osservate con gli occhi di un personaggio nel quale si specchia di continuo, sebbene finga di prenderne le distanze: “Devo sempre guardarmi dal confondermi con lui. Io non voglio avere niente in comune con un brigante. È abbastanza chiaro?”. Chi si nasconde, d’altronde, dietro alla figura del brigante, se non il bambino che Walser si è portato dentro tutta la vita, l’ha costretto ad essere poeta e gli ha donato buona parte degli strumenti della creazione artistica?
“Il brigante” è uno degli ultimi testi di Walser. Qualcuno lo data 1925, ma in un appunto del 1928, Walser – autore molto amato da Kafka, Musil, Benjamin, Hesse – dice di aver scritto nella sua vita soltanto tre romanzi (o meglio “libri nei quali si raccontano varie cose”), per poi limitarsi a brevi brani in prosa per i giornali. Di questo quarto romanzo non fa cenno neppure al suo amico e tutore Carl Seelig. Il manoscritto era “nascosto” in quel pacchetto di 526 foglietti scritti a matita con una calligrafia non più alta di due millimetri che Lisa, la sorella di Walser, consegnò a Seelig nel 1937 e questi scambiò per un codice cifrato. Sono i cosiddetti “microgrammi”, che Walser continuò a scrivere anche durante il ricovero nella clinica psichiatrica di Waldau tra il 1929 e il 1933. Dopo il trasferimento nel manicomio di Herisau, dove rimase dal ‘33 fino alla morte, avvenuta il giorno di Natale del ’56, non scrisse più una riga.
Questo articolo è apparso su l’Unità di venerdì 25 luglio 2008
Una testimonianza sulla morte di Robert Walser
“I fratelli Tanner” è il romanzo in cui Robert Walser prefigura quella che, 50 anni dopo, sarebbe stata la sua morte. Una bella mattina, infatti, Simon Tanner trova un giovane coricato nella neve e, una volta avvicinatosi, si accorge che è morto, un libretto di poesie in tasca. Bene, il giorno di Natale del 1956, Walser fu trovato esattamente così, disteso nella neve, la mano destra sul cuore, colpito da infarto durante una passeggiata nei dintorni di Herisau. Il ragazzo che scoprì il corpo di Walser oggi è un signore in pensione. Si chiama Erwin Brugger. Racconta per la prima volta a un giornale quell’episodio.
Signor Brugger, che cosa ricorda del giorno in cui trovò il corpo di Walser nella neve?
Mi ricordo tutto molto bene. Era il giorno di Natale. Dopo pranzo, verso l’una, i miei genitori mi dissero di andare a giocare all’aperto. Incontrai un ragazzo del vicinato e decidemmo di fare una passeggiata fino a raggiungere la cima di una collina per poi scendere in slitta. C’erano 15 centimetri di neve e nebbia alta. Quando arrivammo su vedemmo, a 30 metri da noi, una persona distesa nella neve. Era supina. Ci avvicinammo con timore. Si trattava di un uomo, pensammo che avesse bevuto troppo. Quando fummo a un metro ci fermammo e ci rendemmo conto che era morto.
Che cosa fece a quel punto? Chi portò via il cadavere?
Ci recammo alla fattoria più vicina e descrivemmo quel che avevamo trovato. Il proprietario andò lui stesso a vedere il corpo e confermò che l’uomo era morto. Poiché nella fattoria non c’era il telefono, corremmo alla casa più vicina, quella dell’agricoltore Hefti. Da qui fu chiamata la polizia. A causa della neve i poliziotti e l’addetto delle pompe funebri dovettero fare l’ultimo tratto di strada a piedi. Noi ragazzi fummo allontanati. Dopo gli accertamenti il cadavere fu legato a una slitta per il legname e trasferito sul carro funebre fermo a 300 metri.
Lei aveva 12 anni e andava a scuola. Dopo che mestiere ha fatto?
All’epoca, nell’anno scolastico 1956-57, frequentavo la sesta classe della scuola elementare. Nel ‘65 sono entrato nella polizia e ho concluso la mia carriera il 30 giugno dell’anno scorso.
Quando ha saputo chi era Robert Walser?
Mi era sempre stato dettoche l’uomo che avevo trovato nella neve era uno scrittore, ma solo dopo otto anni ho scoperto chi fosse veramente. L’ho saputo infatti solo nel 1964, quando Herisau gli ha dedicato una fontana. Ho l’impressione che allora tanta gente non sapesse chi fosse realmente Walser.
Stralcio da un articolo pubblicato in Alias (il manifesto) nell’aprile 2007