Faceva lezione in un seminterrato di un vecchio palazzo in via Veterani, in un’aula senza finestre, dove egli discendeva dal secondo piano dell’edificio in cui era allogato il suo studio con annessa biblioteca. Lì lo aspettavamo due volte la settimana, di pomeriggio, dopo aver lasciato dietro di noi, per strada, sotto il cielo plumbeo di Urbino, palazzi e vie immersi nella nebbia.
Le lezioni del professor Cesare Questa, tanto erudite quanto divaganti, avevano un potere attrattivo ed emulativo fortissimo. Erudizione come premessa di un sapere certo e frutto di una connaturata curiositas, divagazione come elemento necessario della complessità dei fenomeni letterari antichi e moderni, approfondimento e scavo filologico e storico, non deragliamento, errore, svagamento, vaniloquio.
Non eravamo mai in molti alle lezioni di Lingua e letteratura latina, quindici, venti persone, verso la fine del corso anche meno. Una volta ci portò nel suo studio per donarci alcune copie non rilegate di Numeri innumeri, ch’egli in tipografia aveva salvato dal macero, pensando bene di utilizzarle in questo modo. Questo deve essere accaduto alla fine del 1984 o ai primi del 1985, perché la prima edizione di quel libro è datata gennaio 1985. Anch’io ebbi la mia copia, che poi portai in legatoria e rivestii con una bella copertina color amaranto. Salite le scale e attraversata la biblioteca dove, intorno al lungo tavolo, si tenevano i seminari, eravamo nel suo studio, tutti in piedi, compreso il professore, che maneggiava queste copie scucite della sua opera plautina, spiegando, col suo solito incespicare nelle parole, che quando Plauto morì, “numeri innumeri simul omnes conlacrimarunt” (scoppiarono in pianto tutti insieme ritmi innumerevoli), come scrisse Gellio; non so perché, io mi sedetti, e questo attirò la sua attenzione e, di riflesso, quella dei miei compagni di studi; sentii all’improvviso tutti gli sguardi puntati su di me, tanto che divenni rosso come un pomodoro. Il professore chiese se mi trovassi a mio agio nel suo studio e se desiderassi rimanervi e studiare la metrica di Plauto; io mi confusi, balbettai qualche parola e mi alzai in piedi, colpevole d’aver mancato di rispetto al mio professore; il quale mi pregò insistentemente di rimanere seduto, ma io ormai ero in piedi e non mi sarei riseduto per nulla al mondo. Poi, per fortuna l’attenzione dei presenti fu volta altrove.
Un giorno d’estate dei miei anni universitari mi trovavo con qualche amico su una spiaggia della riviera romagnola (Rimini, Milano Marittima, Misano, Gabicce? Non ricordo più), quando qualcuno di noi avvistò in lontananza Cesare Questa che avanzava in costume da bagno, evitando con mosse studiate e repentine i corpi che gli si paravano davanti. Era la sua abituale passeggiata mattutina sul litorale sabbioso. Dovevamo avvicinarlo oppure no? Aveva tutto il corpo, cosparso di molta peluria, sporco di sabbia, e la barba bagnata, segni che era stato disteso al sole e forse si era lavato il viso nell’acqua del mare. Egli allora aveva poco più di cinquant’anni, trenta più di noi, e la sua statura, non solo intellettuale, ma proprio quella fisica, incuteva negli astanti un certo rispetto. Vincemmo la timidezza e il timore reverenziale (e se si fosse messo a parlare in latino…?) e lo fermammo sul bagnasciuga. “Buon giorno, professore, si ricorda di noi?”. “Ma certamente: i miei studenti urbinati!” esclamò con un largo sorriso e incespicando nell’avverbio. Non so se ricordasse i nostri nomi, penso di no, dal momento che non li pronunciò mai durante il breve colloquio, ma siccome era curioso di tutto, volle informarsi sui nostri spostamenti estivi, meravigliandosi molto che viaggiassimo in autostop e dicendoci che aveva la tentazione di venire con noi, ma ormai la sua età non glielo consentiva. E poi il mare luccicante della riviera, il sole, la sabbia… lo trattenevano. Ci salutammo con una stretta di mano, dicendoci che ci saremmo rivisti a Urbino, a lezione, e lui proseguì la sua passeggiata solitaria scansando molto abilmente chi gli si parava davanti. Mentre si allontanava sulla spiaggia, lo sentimmo canticchiare: intonava un motivo dell’Italiana in Algeri di Gioacchino Rossini, che riconoscemmo subito per averlo ascoltato a lezione:
Son l’aure seconde – tranquille son l’onde
Su presto salpiamo: non stiamo a tardar.
E poi sparì tra la folla dei bagnanti.