Il resistente uomo.
La proposta di David Maria Turoldo

di in: Captaplano

Cento anni fa, in novembre, nasceva a Coderno del Friuli David Maria Turoldo, che è stato molte cose. Sacerdote in direzione ostinata e contraria, soprattutto, e poeta. All’interno di questa produzione ispirata dai testi biblici sta anche un gruppo di poesie riferite direttamente alla Resistenza. Camillo De Piaz, confratello e sodale di Turoldo fin dal 1929, quasi suo diverso alter ego, racconta in un’intervista del 22 settembre 1975 rilasciata a Corrado Stajano per «Il Giorno», del decisivo incontro con i reduci di Russia: “Fu davanti a quei corpi martoriati, a quei brandelli di carne che si disfaceva, a quei volti, a quella rabbia, che cominciai a respirare resistenza”. Da qui l’esperienza dei due, già frati dei Servi di Santa Maria, che proprio presso  il convento di San Carlo, ubicato a due passi dal comando nazista, diedero vita tra l’altro al foglio clandestino «L’uomo», diffuso in copie ciclostilate; esperienza culturale che anticipò la fondazione nel 1951 del centro culturale Corsia dei Servi.  De Piaz valuta l’8 settembre dal lato del ricominciamento più che della fine, “grandioso ritrovarsi di un popolo nella sventura, nella pietà e nell’aiuto reciproco”. Turoldo fece resistenza senz’armi sotto il segno degli incontri solidali con i diversi (per esempio il Fronte della gioventù animato dal comunista Curiel) e con i sofferenti di cui aver cura. Un modo per scoprire se stessi e il mondo nel fare cristiano: “La nostra conoscenza del mondo coincise proprio con la Resistenza. […] il mondo, la società, l’uomo, magari con la maiuscola, cessarono di essere per me delle entità astratte, oggetti di casi di morale”, ancora De Piaz.

Si trattava anche di un “modo anticorporativo” di intendere la Chiesa, diverso da quello ufficiale e in parte connivente con il fascismo, “libero e anticipatorio” del Concilio Vaticano Secondo, calato nel bisogno umano, “asilo sicuro per chiunque” a cominciare proprio da quei giorni del 1943. Una Chiesa che però anche nel dopoguerra fece circolare molto Turoldo, il quale non fu mai democristiano, dato che avversava un partito unico cattolico ed un’egemonia socio politica della presenza cristiana. Pascal e l’Esistenzialismo su cui si laureò primo frate alla Cattolica di Milano con Bontadini, sono tra i punti di riferimento di Turoldo, e il Maritain del L’uomo integrale: “È al maritainismo che dobbiamo la distinzione-opposizione tra l’ingresso in politica in quanto cristiani, appunto da respingere, e quello perseguito, da cristiani, considerato l’unico capace di salvaguardare la reciproca autonomia, insieme con l’accettazione piena della democrazia”, scrive alla prima persona plurale De Piaz.

Se Cristo si distacca dal Padre celeste ed entra sofferente nella storia, ugualmente il cristiano non può che proiettare le vicende umane su uno sfondo interpretativo ulteriore: secondo Ravasi, in Turoldo “gli stessi temi, i verticali e gli orizzontali, cioè quelli mistici e quelli sociali, s’incrociano ostinatamente”. Così per lui il fascismo è “stato fisiologico”, “temperie”, “fondo carsico”, “forma dello spirito”. Ecco spiegata la frase di De Piaz secondo cui “lottare contro di esso e morire sotto i suoi colpi voleva dire lottare e morire per tutto”. Il combattente sta nei versi di Turoldo con grande energia in mezzo alle cose fin dalla raccolta d’esordio Io non ho mani (Bompiani 1948): “Mia natura è di essere / presente: amare / la realtà che sento […]” (Mia natura, vv. 1-3). La dimensione agonistica tipica di questo poetare vede sempre in gioco l’uomo ed ha ispirazione superiore, come nella terza parte di Isaia profeta (vv. 15-19) della successiva Udii una voce (Mondadori 1952): “La Tua giustizia ci arma, / ci trincera il desiderio di essere / liberi; il Tuo Spirito / è sulla piazza ad agitare / le bocche infocate”. Ciò di fronte alla desolazione della guerra (“[…] I giorni / non sono che polvere / agli orli  delle macerie. Questa / non è più una città”, terza parte di Milano, mia povera patria… vv. 6-9, datata 1947, della medesima raccolta) che interroga sul posto di Dio, ma pure nei decenni successivi del benessere e dell’assopimento. Non è dunque un caso che proprio nel 1985 nasca il bisogno di un intero spazio dedicato alla poesia resistenziale: la raccolta Ritorniamo ai giorni del rischio. Maledetto colui che non spera, pubblicata presso l’editore CENS in “cento esemplari non venali”, a cura del Centro studi ecumenici “Giovanni XXIII” di Sotto il Monte, dove dal 1963 fino alla morte Turoldo teneva il suo magistero. Esplicitamente il sacerdote ha indicato, dopo la Resistenza, negli anni Sessanta della distensione il suo ritorno ad un orizzonte  di luce (“E ho creduto veramente nella possibilità di un mondo nuovo, o comunque diverso. Speranza che la storia dovesse cambiare. Era il tempo di Kennedy, il tempo di Kruscev. Non so che tempi fossero. Ora mi sembra una favola. Oppure ci siamo tutti sbagliati?”), laddove altrettanto esplicito è il titolo che voleva dare alla propria raccolta commemorativa (Dopo quaranta anni di solitudine e deserto) ed il sentimento che lo ispirava: “la stanchezza di molti, è quasi, per altri, il disagio e la vergogna a ricordare. E non rara malvagità di giudizi. E giovani, soprattutto giovani, generazioni senza memoria”. In Sotto gli occhi fan grumo del 25 aprile 1959 coloro che “scendevano dai monti / o sorgevano dal selciato” (vv. 11-12) venivano “Di nuovo lasciati soli / dalle città ritornate a festa” (vv. 23-24). Quaranta è anche il numero di anni dell’Esodo di Israele dalla servitù d’Egitto e secondo Turoldo come sono nati altri Faraoni, altri fascismi si stavano sviluppando magari  con la complicità delle vittime (“gli stessi ebrei nel deserto, a volte, rimpiangevano la loro schiavitù… ”): così in Siamo composti con brani di morte si legge: “non vogliamo essere liberi, / il peso di dover decidere da noi” (vv. 19-20).

Giacomo Noventa, un poeta assai caro a Turoldo, scriveva del resto, in Tre parole sulla resistenza, che “il nemico contro il quale la Resistenza popolare italiana combatteva non era soltanto l’ultimo fascismo e l’ultimo nazionalismo, ma l’indifferenza popolare italiana dal risorgimento in qua”. Eppure la poesia più bella della raccolta riafferma la tenacia della lotta. Ecco quindi la rievocazione della vita messa in pericolo per una causa più grande delle vicende puramente individuali. È il noi collettivo che risuona iterato per quattro volte, incitando a nuove speranze in un tempo che, di contro, pare dominato dal dubbio sulla trascendenza e pure sui più stretti legami umani. Il rischio dei giorni della Resistenza può forse ancora diradare il torpore arreso a un potere leggero e insinuante, la solitudine tanto insuperabile quanto ormai comoda e difensiva.

 

Torniamo ai giorni del rischio,

quando tu salutavi a sera

senza essere certo mai

di rivedere l’amico al mattino.

 

E i passi della ronda nazista

dal selciato ti facevano eco

dentro il cervello, nel nero

silenzio della notte.

 

Torniamo a sperare

come primavera torna

ogni anno a fiorire.

 

E i bimbi nascano ancora,

profezia e segno

che Dio non s’è pentito.

 

Torniamo a credere

pur se le voci dai pergami

persuadono a fatica

e altro vento spira

di più raffinata barbarie.

 

Torniamo all’amore,

pur se anche del familiare

il dubbio ti morde,

e solitudine pare invalicabile…

 

La distanza temporale via via crescente dal periodo 1943-1945 fa sì che siano numerosi i testi che inquadrano la Resistenza in termini di memoria. In questo caso poesie e canti cercano di dare la risposta al problema più ampio, che investe tutta la società contemporanea, rispetto al modo per tramandare il ricordo, stante pure la progressiva sparizione dei testimoni diretti. È la medesima questione che ha avuto maggiore visibilità in riferimento alla Shoah. Eppure la stessa Resistenza è stata soggetta a precoci diffidenze, scontri ideologici, tentativi di annessioni unilaterali e fuorvianti, una fase di mummificazione istituzionale che potremmo definire con Nietzsche la malattia storica,  parallela all’accantonamento e all’oblio denunciati appunto da Turoldo o ancor prima dai Cantacronache, nonché ulteriormente, a metà degli anni Novanta berlusconiani, a revisionismi assai spicci e interessati. Rimontanti anche questi ultimi a ben prima, se si legge il Sereni di Nuovo anno zero con riferimento a Sachsenhausen, quartiere di Francoforte sul Meno e pure primo campo di concentramento nazista vicino a Berlino (“Tutto ingoiano le nuove belve, tutto – / si mangiano cuore e memoria queste bestie onnivore” vv. 20-21), doppiato da Settembre 2003, nuovo anno zero di Fabio Pusterla: “[…] Poi un giorno / ne sale un altro e grida: è stato un gioco, / uno scherzetto innocuo […] vv. 10-11).

Nella Prefazione alla raccolta dell’85 di Turoldo si rinveniva un nesso fortissimo tra la Resistenza e il Cristianesimo, perché la prima “fa corpo con lo stesso essere cristiano” ed il cristiano “deve ritenersi sempre un resistente: uno nel deserto appunto”. Ma di più, coerentemente con la trasvalutazione del fascismo oltre l’esperienza storica, anche la Resistenza va considerata come esperienza umana integrale: “Ho scritto un giorno: – Beati coloro che hanno fame e sete di opposizione –; oggi aggiungerei: – Beato colui che sa resistere –”. Ecco la personale strada che ci indica il poeta friulano per non rattrappire la memoria, ma rilanciarla viva nel quotidiano.

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