Quando c’era la Fera di Zangh, che era più la grande dell’anno, e capitava d’autunno, c’erano quelli che affittavano il letto ai forestieri, e i padroni di casa dormivano sulle scale.
Sapevano infilarsi nella Sala Roma, al cinema Stabile meglio di un raggio di sole. Odoravano di mosto pure gli angeli custodi, gli piacevano gli stessi film, e ridevano, quando volavano coppole dal loggione, bucce d’arancia. Tra un tempo e l’altro giocavano a “Uno, monta la luna…”. Ai film d’amore calavano a sonno.
“IL QUALE SUDDETTO terremoto B. sarebbe quello che avviene sempre dopo la mezzanotte”.
“IL QUALE SUDDETTO terremoto A. sarebbe quello che avviene sempre dopo mezzogiorno”.
Il Cavaliere Domenico Chiummiento conosceva a memoria il libro che raccontava l’Apocalisse, e una mattina di agosto, che aveva bevuto un bicchiere di vino, offerto assieme a mezzo quintale di farina di grano-cappello da Misciaròn, dato che il cavaliere aveva gettato per sette volte il bando che la moglie di Misciaròn aveva perso un riccio della cosa sua dolce, e siccome non prendeva requie per quella trista arrubbazione, che era anche il riccio più grosso, finalmente, dopo sette giorni e sette notti, si era presentato una bambino piccininno creatura uagliungiedd con quel riccio in mano e ci volle la colla magica per incollarlo, e alla fine era bello come un riccio di sposa fresca, il Cavaliere recitò alcuni versetti dell’Apocalisse seduto davanti alle latrine di Sotto San Michele.
“Questi hanno il potere di chiudere il cielo, affinché pioggia non cada nei giorni del loro ministero profetico, e hanno il potere sulle acque di cambiarla in sangue, e di colpire la terra con ogni flagello ogniqualvolta lo volessero…”.
Dopodiché si addormentò e sorrideva nel paradiso del sonno.
“IL QUALE SUDDETTO terremoto C. sarebbe quello che avviene sempre prima della mezzanotte”.
Rocchino Scarcign’ si faceva vedere soltanto con il sole. D’inverno scompariva. A guardarlo faceva impressione. Senza denti, e forse non ne aveva mai avuti. Senza collo. Le braccia tese come due mazze, gli occhi fuori dalle orbite sembravano due uova di piccione. Un metro e trenta di altezza. Camicia e gilè.
Giocavamo a carte nei vicoli, sui muretti delle latrine. Gli piacevano le carte a denari, con tutte quelle lune(o erano soli?). Rideva solo quando prendeva il sette di lune d’oro e quando qualcuno cercava di indovinare la sua età. Ventotto anni? Trentadue? Quando perdeva, bestemmiava e incacagliava. Morì in manicomio, un giorno che nevicava.
Uscivamo nel vicolo, a odorare il sole. Le pompe comunali sparavano acqua in tutti gli angoli. Le mosche, con una pazienza di santi, si leccavano le finestre come fossero caramelle a vetro.
“TRA I QUALI PER SAPERE IL GIORNO di cui avvengono questi suddetti terremoti, nella pagina quarantotto troverete, la regola che viene appresso di un cattivo avvenuto, e così saprete la giornata di cui avviene un altro cattivo terremoto”.
Un luglio perso come una mosca sul palmo incantato di un bambino, incontrai un compagno di scuola nella cantina di Somma, dove ero andato per tre quarti e una gassosa. Gli chiesi se si ricordava come si scrive la “effe”, che non la tenevo più a mente. Dal falegname neanche i chiodi imparai a raddrizzare. Dal barbiere durai due settimane. Dal calzolaio, tre giorni.
Ah! gli angeli custodi, che voleva pisciare pure loro sospirando e se lo cercavano in mezzo alle gambe e non lo trovavano!
– La cerasa (la pianta di ciliegie) era diventata nera. Scura scura. Arcangela si è avvicinata e le cornacchie sono volate via. Le ciliege sono tornate bianche rosse. Cest’ d’ pernococche, fichi, secchie di fichi. Spighe di granoni lunghe un braccio, aveva piovuto, mi era finita una spina nel dito, la tirai fuori con la punta della falce. Il grano nelle botti, sottoterra. Le cornacchie ca mpustaven quelli che seminavano. –
Ha trascinato una branda sotto il salice, ed è là che va a riposare, il pomeriggio. C’è sempre un po’ di vento e i rami tengono lontane le mosche.
“LA NOTTE del 23 luglio 1930; alle ore 1,10 segnalata quasi per tutta l’Italia girò la ruota, Iddio del cielo si voltò molto sdegnato, per 50 secondi con l’aria oscurata e la terra tremota, fece abbattere le case le città”.
Passò un vecchio e gli chiese, per Gesù Cristo, due fichi. Giuseppe gli fece togliere la giacchetta, legò le due maniche, le strinse con le ginestre e gliela riempì di fichi: – Saziàtt! –
Sporte di fichi, una quintalata di moscatella, peperoni, ogni tanto recita poesie di quando andava a scuola, da bambino.
Ci toglievamo la zazzera, verso Natale, e il barbiere, pure se tenevamo nove anni, ci regalava i calendari, quelli piccoli e fatati che profumavano di cipria, con le cosce, i capelli e il petto colorati. Pure gli specchi ascoltavano i fatti degli Amanti a Morte, dei Pieni di Debiti, i Corteggiati dagli Scavafossi, i Pieni di Corne, le Vedove Incinte, ma i ricci dei bambini scivolavano a terra e coprivano pure i tradimenti degli Angeli.
Il principale si ammutiva solo quando passava una figliola d’oro. Cacciava un fischio, e quella, sentiva o non sentiva, scoppiava a ridere, senza voltare la testa.
Fotografie ingiallite.
Le graste di legno poggiate su lastroni di pietra. La porta spalancata, un grembiule bianco, la mano sulla maniglia, una donna si nasconde per non entrare nel ritratto, perché è vecchia e non vuole guastare la carne degli sposi.
Lo sposo, con i guanti bianchi, il fazzoletto bianco infilato nel taschino. La faccia seria di chi ha riso prima di mettersi in posa e gli è rimasta l’ombra del sorriso.
La sposa è piccola. Porta capelli con un taglio da casa di cura. Sente la mano dello sposo sulla spalla nuda. Il velo è da sposa e da morta.
Sotto l’arco. Tre donne anziane e altre due, più giovani. Una di quest’ultime fissa il fotografo. L’altra sussurra qualcosa all’uomo che porta la coppola. La sua voce copre la malinconia, la stanchezza della bambina con il cappellino bianco, che sta al centro della foto e guarda la cerimonia infantile dell’eternità, un po’ noiosa. Porta la frangetta e sa che tutti quelli che le stanno attorno, compreso io, che la guardo, sono morti.
Agli sposi mancano i sensi: il tatto, la vista, l’udito…La sposa porta fiori che marciscono nelle mani, perché le mani non sono un vaso d’acqua né terra…
La sposa ha una bocca piccola e sembra che l’abbiano cresciuta in quel velo, che è cresciuto con lei.
Non si vedono le scarpine.
La sposa stringe un fazzolettino tra le dita. E’ una bambina che ha solo velo, ossa di organza, così il petto. Velo.
Le orecchie della sposa, invisibili. C’è un po’ di vento, perché la stola che indossa la madre si è sollevata. In qualche punto, il vento è il dito di un bambino che affonda il dito nello zucchero dei morti.
Vibra, vibra, la fidanzata delle ore, la morte!
La vecchia si è acconciato il petto un po’ troppo in alto e questo la rende buffa.
Sul fondale è dipinta una scala e vi sono colombe e un giardino.
Il Cavaliere predicava agli uccelli delle Combinazioni, degli Universi e dei Tempi e delle Eternità, delle Lune e dei Soli, per convertirli alla Grazia dei suoi Consigli, a quella del Macchinario magico che avrebbe fatto scivolare nelle falde, nelle crepe, nelle voragini aperte dal terremoto, fino alla sorgente del tempo, i compratori del suo Meraviglioso Libro Inventato. Non vedeva che un quadrato arcano di cifre e di lettere, un compendio dei calendari celesti, e gli rimanevano oscuri i pensieri, le immagini e i rumori e le voci e i silenzi; e le creature e gli amori e le storie del mondo erano come le aste che si disegnavano a scuola.
“E CON QUESTI SEGUENTI parole, situato nella storia del terremoto, l’autore è venuto premiato, per avere composto la seguente storia del terremoto, e per aver salvato vite, che stavano nel triste macerio perdendo la vita”.
“Sono andato in campagna e ho trovato un solco, scavato dal camion, dove ci stava a meraviglia la pancia mia. Mi sono steso e sono rimasto a riposare per un’ora, due; l’aria era fresca e faceva notte. In fabbrica devo inserire quattrocento pezzi in un’ora, non tengo il tempo di farmi la croce”.
Si cercava il lievito per il pane quando calava il sole, con la corona dei misteri sopra la scodella.
Solo delitti di amanti, suicidi di amanti, capelli che persero la ragione per entrare in una carezza.
Mani belle a scartare lenticchie, a scuzzulà fagioli, a spandere lenzuoli, a ripiegare fazzoletti, a tenere contento un libro con le dita.
Quando la luna si sedeva nel fiume e quelli appresso al lutto fischiavano perché c’erano piante di ciliegie sulla via, che volevano essere mangiate, e il morto andava troppo veloce.
A dieci anni si prestavano il sonno, si andavano cercando dalla mattina alla sera e scoprivano il cuore come una carta d’oro. A dodici anni non si guardavano in faccia.
Alla Picciunàma, che era il loggione dello Stabile, si succhiavano le lumache e si gettavano i gusci vuoti in platea.
Maciste girava in canottiera. Portava tatuati sulle braccia gli stemmi della Marina. Aveva fatto il meccanico, era l’unico che sapeva aggiustare le macchine da cucire. Era pescatore e voleva bene ai bambini. Faceva l’operaio alla SITA. Aveva la corporatura, la faccia buona e senza pensieri di Lothar, il servitore di Mandrake. Finiva in galera sempre per storie di mazzate. Aveva fatto il boxeur. Parlava settentrionale. Morì in manicomio.
“Miseria” calava a sonno vicino al forno di Calvi. Si svegliava con le spalle piene di neve.
L’opera, l’avanspettacolo allo Stabile. Quintali di ceci. Losappio faceva contrabbando di sigarette. I bambini gli portavano i mozzoni.
Cavalett’ cu n’acciatura d’ lard.
La Strazziaredda s’ mantenìa doie frà ca faciénn’ li scarpar’. E’r’n belli uagliò. Facèren lu cumplott e s’ purtaren sa marir int a la galleria d’ Macchia Romana. Lu giorn’ d’ li funeral era vestita tutta mpusamàra e cu li uand’ biangh’.
Mast Rocche Cevodda tornò dalla guerra e fece un voto: – Si m’ salva m’ sposa na malafemmena – . Edda tenìa nu figli’ e s’ mantenìa nu falignam’. Lu falignam s’ chiama Turiddu e teneva lìappalto per il trasporto dei detenuti. Rocche Cevodda iscès p’ gì a fatià. Verès ca s’ra scurs lu muccatur e turnas ncasa. Li truvà tutt’e doie int’ lu liett. A lui l’ammazzò con uno scalpello. Dopo quindici anni si mise di nuovo con sua moglie.
Il teatro Stabile era anche cinematografo. Quando si accendevano le luci, le figliole si facevano rosse e si nascondevano la faccia nelle mani con la paura che ci fosse un fratello. La pellicola si spezzava in continuazione e la picciunama fischiava finché non veniva a male di testa.
Gianna nu n’era prena e gìa truvènn li fasciatòr’. Maria nna cu lu ust’ e Gianna cu lu navechizz’.
Le lastre fotografiche trovate a Atella, a Acerenza. Alcune erano state usate per compattare il pavimento; altre, lavate e messe come vetri alla finestra.
“Chi avéss’ truvat nu par d’ uand
li géss’ a purtà a lu Campesand,
Li cunzignass’ a Tonin Cuglietta
ca gn’ prur lu cul’
e senza li uand nu ns’ sa rattà
abballènn abballà”.
Il Cavaliere Domenico Chiummiento, agnostico, si sogna le processione di San Rocco e di Sant’Antonio che s’incontrano in un vicolo di Portasalza e c’è la lotta per chi deve passare per primo.
“E Santi Rocchi evviva, evviva Santi Rocchi
e Santi Rocchi evviva, e chi lo creò!”.
“E Sant’Antonio evviva, evviva Sant’Antonio
e Sant’Antonio evviva, e chi lo creò!”.
“E Santi Rocchi è bello, è bello Santi Rocchi
da la fronta a li pier, prescezza del Signor’!”.
“E Sant’Antonio è bello, è bello Sant’Antonio
da nnanz e ndret è santo, da capa mpèr è amor!”.
“E Santi Rocchi è bello, è bello e aggraziato
D’uocchie ca tèn nfronta son perle del Signor!”.
“E Sant’Antonio è bello, è bello e contemplato.
D’uocchie ca tèn’ avèrt’ so baci del Signor!”.
E Santi Rocchi è santo, glorioso e costumato.
È il diletto di Dio, è l’ombra del suo cuor’!”.
“E Sant’Antonio è santo, è santo Sant’Antonio.
Uarisce a Santi Rocchi, che è piaga del Signor’!”.
“E Santi Rocchi è santo, santissimo e beato.
Sotto la scedda tèn stu Sant’Antonio ognor’!”.
“E Sant’Antonio è santo, conserva dell’amor.
Il santo più adorato, la dengua del Signor’!”.
“Evviva, evviva evviva, e Santi Rocchi evviva.
Sccattàss’ Sant’Antonio, ramela del Signor’!”.
“E Sant’Antonio è santo, e gloria a Sant’Antonio.
Stenness’ i crocc’ a Rocco, ed al suo cane ognor!”.
“E Santi Rocchi è santo, è santo Santi Rocchi
Ardess’ a Sant’Antonio col fuoco del suo amor!”.
Lampi, tuoni, acqua a secchi. Vento. L’acqua è gelata ma nessuno abbandona il suo Santo.
“E’ accumingiat a chiuòv, mannaggia Sant’Anto…Evviva San Nicola.
Scurciass a Santi Rocchi, nemico del Signor’!”.
“E chiuòv e mena vent’, mannaggia Sant’…Nient
Spunzass’ a Sant’Antonio, scherano del Dimòn!”.
Diluvia.
“S’ so chiatrà li pier’, evviva…Sammechèl!
Cecasse a Santi Rocco, crapàro del Signor!”.
La confusione e il freddo, e l’acqua nelle ossa, la delusione e la rabbia aumentano.
“S’ so chiatrà li mman’, evviva…San Gaitàn,
bugliéss a Sant’Antonio, sciacquino del Signor’!”.
“E s’è chiatrà lu nas, evviva San Tommas,
San Cosimo e Damiano, e Santa Agnese ognor!”.
A questo punto, nel sogno del Cavaliere Chiummiento, le due processioni si ammìsccano, e tutti insieme cantano, scappando.
“S’ so chiatrà li mman, evviva San Gaitan
San Cosimo e Damian’ e San Gesualdo ognor!
S’ so chiatrà li mant’, evviva tutti Sant’
ca s’ scampen ncasa, ridendo dell’amor!”.
La casa rossa di Via Acerenza. C’era pure una toscana, una romana. La romana teneva un marito sciancato. Sette, otto figliole. Cambiavano, ogni quindici giorni. Lucia, la foggiana, il giorno di Santa Lucia faceva festa. Era assai bella. La sala d’attesa, d’inverno, con il braciere. Si andava pure per passare un po’ di tempo. Lillino Vinciguerra uscì pazzo per una Calveddese.
Villani menava l’acqua nei carboni per farli pesare di più.
Ah! Cristo ucciso, che non sentiva com’era fresco il lenzuolo!
I Sebbulcr erano spighe di grano cresciuto al buio, si conservavano in casa e se ne gettava un pezzetto dalla finestra, ogni volta che si voleva calmare una tempesta o il sole.
Il bambino si alzò sulla punta dei piedi, per guardare sua madre stesa sul letto. Perse l’equilibrio e finì con la testa sulla pancia della madre, che non rise né si lamentò.
“Colìn, colìn!”, “Vir’ cum all’azza!” quando uno scappava e si batteva una chiappa col palmo della mano.
“Ntubb’!” voleva dire “perfetto”.
Baccalà e puparul’. Baccalà mis’ a spunzà con l’acqua piovana.
Maria Smaldone. Na b’llezza. Quando si asciugava i capelli, davanti alla porta, piegava la testa, stordita dal sole. I capelli gettati sugli occhi coprivano tutta la faccia, il petto, e c’era uno, più temerario della morte, che si accostava e le scostava i capelli, senza farla svegliare.
Un fratello di Bebè teneva una voglia di coria di maiale. Era epilettico, sapeva giocare a carte. Si ammazzò.
La Sparticénere al fiume, dove c’erano fiori che uno li stringeva e usciva la schiuma. La Sparticénere lavava panni. Una mattina scura come la pece, che la gente stava in casa per la meraviglia, le comparve una ragazza morta di tifo due anni prima. La ragazza cacciò dal petto un fazzoletto sporco e le chiese di lavarglielo. Non voleva che glielo stirasse. Perché i panni ripiegati le mettevano malinconia.
“Ie nu mpiglia pac’ amor mie.
P’ ti nu mpiglia pac’
E p’ la rattacasc’
Ca nu mpozz’ truvà
Abballènn, abballà!”.
(II – Fine)