Il respiro mi accompagnava ormai senza che ci pensassi e avevo questa connessione con tutto, senza sforzo e senza pensiero. E all’improvviso mi è arrivato un brivido. Non fisico, però. O meglio, l’ho sentito nel corpo ma era più profondo. O più superficiale, forse. Una scossa, come se mi si fosse infilata l’anima in qualche presa di corrente. E la presa era tutta intorno a me, ed era anche il mio corpo.

Mi sveglio in camera mia. Mi metto a pulire il pavimento con una scopa di paglia. Ricordo quando ho comprato quella scopa, e nello stesso tempo so di non aver mai avuto una scopa di paglia. Il giallo dei suoi fili e l’arancione e il verde dei cordini che li tengono insieme sono l’unico colore nel grigio della penombra. Sotto il calorifero, tra il pavimento e le pareti della stanza corre un distacco di un paio di centimetri, da cui indovino il piano inferiore e ancora più sotto le profondità del palazzo in cui vivo, le sue tubature e i suoi ingranaggi, giù fino al fango rovente del centro della Terra.

Qualcuno potrebbe intrepretare questa svolta come un espediente compositivo messo in atto per bilanciare le due parti, ma il tono muta in modo così aderente alle vicende narrate, da suggerire una progressione nel life-writing più che una soluzione formale che funge da contrappunto alla prima parte. In altre parole, potremmo dire che le preoccupazioni dell’arte kunderiana del romanzo sono abbandonate: i conti non tornano, ma non è più questo ciò che importa.

Non che altrove altri edifici come quello non avessero e non abbiano i loro sotterranei, ma già ai tempi dell’Istituto ci si era accorti che i locali, per un capriccio del caso o per chissà quale occulto disegno, erano stati infettati dalla “madrepora”.

Le sue indecisioni personali – a «Vie nuove» Longo “mi fece notare che conversando con lui pendevo troppo dalle sue labbra. Quando dici una cosa, resti a guardare con ansia l’effetto che fai sul tuo interlocutore, questo non ti giova…” – e le riserve politiche (“Dopo la Resistenza il Pci non aveva detto niente di importante”, di nuovo alla “coscienza della gente”) continuano a rendergli difficile la carriera.

La donna con la roncola si arrampica su un albero e con un colpo secco della lama decapita uno scoiattolo. È, a quanto è dato sapere, la prima morte filmata da Adra. La cinepresa non riesce a cogliere gli ultimi istanti di vita dell’animaletto, il rigirarsi spaesato degli occhi ormai separati dal corpo, il tremore di una zampina, l’accovacciarsi innaturale e un po’ esilarante del corpo decapitato.

Invidia, indifferenza, indiscrezione, morbosità, godimento verso la celebrità infangata, ingiustizia circondano il recluso con mura ancora più alte e spesse di quelle del carcere.

Tarantino racconta la sua esperienza con un registro popolare – e con prevedibile competenza enciclopedica – facendo emergere man mano intuizioni che ne confermano la voce, che non perde mai forza persuasiva: l’entusiasmo, che è il tratto dominante e quasi il timbro di questa voce, non contrasta con la precisione del dettaglio, anzi la richiede proprio perché esprime una passione decisamente sensibile alla sciatteria.

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