Subito era nata una riflessione su come un oggetto, pensato, fabbricato, utilizzato in modo coerente con la cultura che lo ha prodotto, quando sia separato dal suo ambiente e trasportato altrove, presso una società lontana che ne stravolge la funzione, non perda la sua identità ma, in una sorta di rite de passage, acquisisca un nuovo status a seconda dello sguardo che ad esso si rivolge: di objet témoin della cultura che lo ha prodotto, per l’antropologo; di oggetto artistico, per l’esperto d’arte; di oggetto di analisi, per lo storico; di oggetto da collezione per il collezionista; di curiosità, per il visitatore di passaggio, così che tutte le sue dimensioni, funzionali, estetiche, simboliche vengono alla luce.
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Nella poca luce della corte è il canto dei monaci con formule ripetute, mi sembra, all’infinito che mi guida alla cappella. Solo la luce delle candele illumina l’interno. Prima di entrare, e dopo ripetuti segni di croce, tutti toccano e baciano le icone. Non è effigie del santo l’icona per i greci ortodossi, ma il santo stesso, “come quando la stella della sera appare in cielo, e non avrebbe senso dire che è solo apparenza della stella della sera e non la vera stella della sera”, dice, a proposito dell’icona, un mistico russo.
Caldo, caldissimo, eppure metri di tessuto coprivano i passanti, dai piedi alla testa, e la stoffa avanzava, per giunta. Li riparava dal caldo, da occhi indiscreti, falsi giudizi. Ho desiderato anche io metri di tessuto a coprirmi quando sentivo occhi curiosi su di me, troppo occidentale, mi avrebbero permesso di camminare serena e sicura. Via, si va, camminiamo, c’è tanta gente.
Oggi è il trentasettesimo giorno di epidemia da covid. Ci è stato raccomandato di non uscire, siamo chiusi in casa. Se non possiamo uscire di casa non possiamo certo viaggiare e, di fatto, tutte le comunicazioni, terrestri, aeree, navali, sono interrotte. Di me posso dire che non sono un viaggiatore nel senso che si dà [continua]
Tempi eccezionali, sì, non c’è altro modo per definirli, per descrivere l’alternarsi di sentimenti e il caos di pensieri che li stanno accompagnando. Improvvisamente reclusi, isolati, minacciati. Per l’esattezza, presi di mira. E circondati da un silenzio che è stupefacente, perché non siamo né in campagna né in montagna ma proprio nel centro della capitale. [continua]
«Dovevo questo testo a Zibaldoni e altre meraviglie dal 22 dicembre 2002, giorno della sua fondazione. Ci sono voluti 15 anni esatti e un lungo apprendistato affinché venisse fuori. Ringrazio Walter Nardon per averlo indirettamente sollecitato e tutti coloro che hanno collaborato e contribuito alla crescita di Zibaldoni fin qui, fino alla fine della sua adolescenza, o forse più semplicemente fino alla fine». [Edv]
“Poche parole che non ricordo più è come un sogno inafferrabile. Il lago attorno a cui si svolge la narrazione ha evocato in me l’immagine della pozza d’acqua, di un verde misterioso e abissale, che mi fu rivelata dall’indovino Ambakene del villaggio dogon di Yendumma, acqua protetta e segreta, nascosta tra le rocce nel cuore del villaggio, sacra perché in essa era tutto il sapere del tempo antico, passato e presente” [B. F.]
Il tappeto
Chissà da dove era arrivato il tappeto persiano che mi fu regalato, un tappeto non antico ma che certo aveva almeno un centinaio di anni, o forse assai di più. E chissà quindi dove era stato fino a quel momento, quando era arrivato a me. Era stato ripiegato in una pila di altri tappeti in [continua]
Avrei voluto essere a Carpi e ascoltare la voce di Gianni Celati, quella voce da lui definita “neniosa”, il suo modo morbido ed esitante di parlare, che a me appare di estrema gentilezza. Avrei voluto esserci perché nel suo intervento, un intervento che sembra ad ogni parola cancellarsi (e del quale per fortuna posso leggere [continua]
Ecco un libro al cospetto del quale bisogna svestire i panni dell’uomo moderno e disporsi a farsi rapire dai fantasmi di un altro mondo. In esclusiva per “Zibaldoni e altra meraviglie”, Barbara Fiore ha tradotto per la prima volta in italiano uno dei più sorprendenti diari di viaggio della letteratura moderna, il “Viaggio a Timbuctù” del mitico René Caillié, in cui un pellegrino innamorato dei propri sogni insegue il destino attraverso deserti e popolazioni africane sconosciute, sempre sul punto di morire e sempre pronto a resuscitare.
L’arte della parola
Nel 1948 usciva in Francia un testo di letteratura orale destinato a diventare rivoluzionario per lo studio della cosmologia e del mito, ma soprattutto per lo studio della parola e dell’espressione, attraverso la parola, del pensiero simbolico. Il libro è il celeberrimo Dieu d’eau [1] in cui, diviso in trentatré giornate, fluisce il racconto del mito [continua]
A bordo del piccolo aereo per Agadez, ripenso alla città che sto lasciando, Niamey: capitale del Niger, assetata dalla cronica siccità, asservita all’imposizione della monocoltura di arachidi, governata da un presidente rigoroso e dogmatico. Silenziosa, non echi di risate, né musiche urlate da radio gracchianti, solo segno di vitalità le decine di lavandai che sbattono [continua]