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Mi sforzai di ricordare. Ero quasi certa di avere indossato un completo da cameriera Contessa a un provino pubblicitario, due o tre anni prima, un abito di latex con i bordi ricamati in pizzo sangallo. Copriva per metà il sedere e per un terzo il seno, un capo davvero alternativo solo come antidoto a un eccesso di anticonformismo.
Il Flaubert Dry era un esempio di spazio multiforme. L’interior design incitava alla violenza. Tutto era affilato, ma carezzevole, un luogo che ispirava desideri di elevazione e distacco. I clienti si specchiavano su modanature dorate, su lamine e superfici barocche, in cerca di qualità fisiche che non trovavano, inconsapevoli che la bellezza non sopporta repliche né riflessioni.
Sono la sola a trovare sinistro il fatto che Re Constantinos si sia rassegnato a tramandare la parte più insignificante della sua esistenza? È possibile che il desiderio di sopravvivere geneticamente sia più forte della reputazione e del patrimonio? Quell’uomo stava morendo senza un erede. Anzi, un erede forse esisteva, ma lui non sapeva dove trovarlo. A parte questo, non aveva scuse.
“Credevo nell’incontro delle pelli. Nella privacy come principale responsabile della solitudine nei centri urbani e tra le prime cause di suicidio nei giorni festivi. Ecco perché dicevo sì allo shopping socializzante. Sì ai ritrovi e alle manifestazioni relazionali. Mi piaceva il corpo a corpo delle vendite sottocosto e, a parte questo, volevo essere cercata. Così, quando ne avevo l’occasione, autorizzavo i discount all’uso indiscriminato dei miei dati personali e diffondevo in rete i numeri di telefono dei miei contatti”. La prima puntata di un romanzo inedito di Omar Viel.