Archivi tag: zibaldoni d’eccezione
Le teorie complottiste sono una risposta a questa contraddizione, risposta che può essere riassunta in questo modo: negare la stessa contraddizione. E come fanno a negarla? Facendo delle informazioni, a favore o no della teoria complottista, parte della teoria complottista. Ovvero, le prove che negano il complotto, sono prove a favore del complotto.
La scrittura rappresenta questa strana radioattività dello spirito: la capacità di abitare la materia, la più semplice, la più povera, la meno “animata” – un’idea diventa una macchia di inchiostro, una superficie di cellulosa, e può, da questa infima esistenza, esercitare un influsso molto più vasto, potente e durevole di quello che esercita quando abita il cervello di un singolo individuo.
Contagio, periodi medi di incubazione, guarigioni vengono analizzati senza la giusta prospettiva temporale come se il tempo fosse piatto, schiacciato. I dati giornalieri, i nuovi casi, i ricoverati nelle terapie intensive, i morti non vengono disallineati. Non viene attribuita la giusta casella temporale agli eventi.
«Atene e Lacedemona, che fenno l’antiche leggi e furon sì civili, fecero al viver bene un picciol cenno verso di te, che fai tanto sottili provedimenti, ch’a mezzo novembre non giugne quel che tu d’ottobre fili.» (Purgatorio VI, 139-144) Calza buffamente a pennello con la situazione attuale il celebre passo dal sesto del Purgatorio, dove [continua]
In conclusione, care amiche, vivo in un catatonico stato d’eccezione – come direbbe quel furetto dell’Agamben –, nel periclitante deserto di un con-dominio fin troppo affollato – come scriverebbe quel bel tomo dello Žižek – e, per giunta, le mie riserve etiliche si stanno esaurendo più rapidamente del previsto.
Oggi è il trentasettesimo giorno di epidemia da covid. Ci è stato raccomandato di non uscire, siamo chiusi in casa. Se non possiamo uscire di casa non possiamo certo viaggiare e, di fatto, tutte le comunicazioni, terrestri, aeree, navali, sono interrotte. Di me posso dire che non sono un viaggiatore nel senso che si dà [continua]
Quante volte Dante cerca di abbracciare qualche cara ombra nel regno dei morti. È un gioco del pieno e del vuoto, una ripetuta sottolineatura gestuale dell’eccezionalità del suo viaggio, ma anche una profonda pena. Il poeta ci ricorda una cosa banale e fondamentale insieme: c’è bisogno d’un corpo per poter dare un abbraccio.
E quando, più normalmente, ci sarà un altro corpo da abbracciare, di congiunti, affetti stabili ed amici? Il massimo contatto della più estesa superficie possibile che aderisce. Quando l’abbraccio è reciproco un otto si disegna, mai perfetto perché ogni corpo è diverso e diversamente irregolare, ma quasi un’intersezione tra i due circoli. Spesso le braccia femminili tendono l’anello verso l’alto, quelle maschili verso il basso dell’ultima vertebra, a volte le rispettive mani, anch’esse intrecciate, replicano in piccolo la saldatura.
Tuttavia, gli scrittori non sono stati meno conformisti. Da rispettosi lacchè dei politici, a loro volta proni ai diktat della tecno-scienza, non hanno nemmeno provato a dire che forse la peste non veniva solo per nuocere, ma a darci una chance storica, quella di rallentare il ritmo della produzione, di abbandonare finalmente l’economia dell’abbondanza, di tentare una forma di vita dove il coraggio e la libertà non fossero compromessi in nome della cosiddetta verità scientifica.
Costui dopo il dominio di Lucio Sulla era stato invaso dalla summa voluntà di conquestare la repubblica; né nutriva un po’ di rimorso sulle modalità con le quali ottenere ciò, purché si procurasse il regno. Giorno dopo giorno sempre più l’animo fiero s’angosciava per la povertà del suo patrimonio e per la consapevolezza dei delitti, l’una e l’altra accresciute grazie a quei metodi precedentemente menzionati. Lo spronavano, poi, i comportamenti di una cittadinanza corrotta, cittadini che due sciagure perniziose e fra loro deverse, lo sfarzo e l’avidità, affliggeva.